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 2020  gennaio 09 Giovedì calendario

L’economia iraniana è già in stato di guerra

Una grande guerra in Medio Oriente? Non la vuole l’Iran, sarebbe schiacciato dalla potenza militare americana. Non la vuole il Libano, già alle prese con una crisi economica da cui sembra incapace di uscire. Men che meno l’Iraq, da tre mesi travolto dalla proteste popolari contro il Governo e il caro vita. Anche Israele, pur preparandosi per il peggio, preferirebbe rinviare a data da definirsi la resa dei conti con Teheran. La guerra non la vogliono nemmeno gli Stati Uniti, Trump lo ha ribadito anche in questi giorni. E neppure l’Arabia Saudita, l’acerrimo nemico dell’Iran che ambisce a divenire potenza del Golfo, appare pronta a un’impresa del genere.
Un possibile conflitto diretto tra Iran e Stati Uniti è visto con grande apprensione da tutto il mondo. Per motivi umanitari, per ragioni di sicurezza, ma anche per motivi economici. In un periodo in cui lo spettro di un rallentamento dell’economia incombe ancora su diversi Paesi occidentali, compresi gli Stati Uniti, una guerra di questo genere avrebbe un impatto negativo sull’economia mondiale. E un impatto drammatico sui Paesi (arabi e non) della regione, quasi tutti alle prese con una congiuntura economica piuttosto sfavorevole. 
L’Iran sarebbe il più Paese più colpito. È vero, gli iraniani sono abituati a convivere con la recessione. Alternando periodi più duri ad altri meno, sono ormai 40 anni che questo Paese, ricchissimo di greggio e gas, fa i conti con le conseguenze economiche derivanti dalle tensioni con gli Usa. Senza contare la guerra lanciata da Saddam Hussein nel 1980: otto anni di ostilità, un milione di morti, due economie, soprattutto quella iraniana, a pezzi. L’ultimo anno di quel conflitto inutile, conclusosi senza vincitori né vinti, la recessione arrivò al -9,5% del Pil.
Oggi una guerra non c’è, non ancora. Ma il giro di vite sulle sanzioni voluto da Trump ha messo in ginocchio quella che, tre anni fa, quando furono rimosse le sanzioni, era considerata un’economia promettente destinata a volare,un grande mercato su cui centinaia di compagnie straniere volevano investire. Se il 2019 si è concluso con una recessione pari al 9,5%, immaginiamoci cosa accaderebbe nel 2020 se dovesse scoppiare la guerra. 
Anche il vicino Iraq ha molti motivi per non voler questa guerra. La sua storia è ancor più turbolenta: 40 anni quasi continuativi di guerre e guerriglie, intervallati da brevi periodi di pace. Questo Paese, ricchissimo di idrocarburi, è già scosso da una protesta popolare repressa nel sangue. Gli iracheni sono stanchi della violenza e della corruzione, delle ingerenze dell’Iran, della mancanza di servizi. Vogliono spazzar via la classe politica al potere, avviare riforme strutturali, assistere ad una distribuzione della ricchezza derivante dalle rendite energetiche. Grazie al boom della produzione petrolifere il Pil nel 2017 è cresciuto del 3,4% (era allo 0,3% nel 2018) e per il 2020 l’Fmi si aspetta un deciso balzo. Ma la condizione è la stabilità. 
Il piccolo Libano è considerato come uno dei potenziali teatri di guerra nel caso in cui scoppiasse un conflitto tra Usa e Iran. Il movimento sciita Hezbollah, sostenuto militarmente e finanziariamente da Teheran, è pronto a scatenare il suo arsenale di razzi e missili contro Israele al primo segnale. Ma la risposta dell’esercito di gran lunga più potente di tutta la regione sarebbe devastante. È l’ultima cosa di cui ha bisogno oggi Beirut, alle prese con una protesta popolare inizialmente scoppiata, anche in questo caso, per ragioni economiche. Il Paese sta vivendo la peggior crisi economica dalla guerra civile (1975-1990). Già oggi i libanesi devono convivere con una crisi di liquidità, con restrizioni bancarie per evitare fughe di capitali, un’inflazione in decisa crescita, e con molti servizi quasi assenti. Il debito pubblico si è gonfiato a dismisura, superando il 155% del Pil, mentre quest’anno il deficit del budget dovrebbe salire al 15% del Pil, il doppio rispetto alle stime governative. Anche Hezbollah non se la passa bene. L’Iran, stritolato dalle sanzioni, gli ha tagliato gran parte dei finanziamenti. E per fare la guerra ci vuole denaro.
In caso di conflitto è probabile che l’Iran utilizzi le sue milizie e le sue basi dislocate in Siria. Per quanto sia suo alleato, dopo otto anni di guerra, mezzo milione di morti, e un Paese raso al suolo, il presidente siriano Bashar al-Assad è desideroso di dare il via alla ricostruzione. Non a essere risucchiato in una nuova guerra in cui dovrebbe vedersela con la potenza di Israele. 
Non c’è mai un momento buono per iniziare una guerra, ma questo sembra per tutti il momento peggiore.