la Repubblica, 9 gennaio 2020
Kangaroo Island è diventata un inferno
KANGAROO ISLAND — L’inferno esiste e la cittadina di Parndana è il suo avamposto. Lo si capisce subito, appena superato il muretto a secco con la scritta “welcome”, non tanto dal sole rosso che dona al panorama una strana sfumatura postatomica, e neppure dal caldo rovente che minaccia ogni arbusto, ma dall’odore di carne bruciata dei koala e dei canguri e di chissà quanti altri milioni di animali e insetti che arriva a folate insieme al vento dell’oceano. Un odore di morte che punge le narici e che ad ogni respiro costringe a pensare a quello che è successo. Anzi, a quello che sta succedendo ancora oggi. E che succederà domani quando le fiamme finiranno di divorare l’Isola dei Canguri, uno dei luoghi simbolo dell’Australia.
La città fantasma
Più che una cittadina, come si ostinano a chiamarla i suoi 120 abitanti, quasi tutti pensionati e piccoli allevatori, Parndana è una stazione di servizio al centro dell’isola, un grosso incrocio col distributore di benzina attorno al quale negli anni si è raccolta una manciata di casette basse. C’è una chiesa, ma senza il prete, perché il reverendo ha trovato riparo in un’altra parrocchia a 37 chilometri di distanza e viene qui solo su appuntamento. Di fronte alla chiesa c’è un negozio che vende di tutto, dal caffè alla frutta ai souvenir per i turisti. Poi c’è la sede dei vigili del fuoco. Fine.
In tempi normali, di turisti che passano di qui senza fermarsi ce ne sono parecchi. Fanno il pieno comprano l’immancabile cartello stradale giallo con l’“attraversamento canguri” e vanno a vedere gli animali in giro per l’isola.
Ma questi non sono tempi normali. Da un mese, i traghetti arrivano vuoti al porto e molti degli abitanti hanno preferito tornare sul continente. Così l’isola è quasi deserta, e le strade sono percorse solo dalle auto dei pompieri, delle ambulanze, dell’esercito, come se ci fosse una guerra.
I resti dei wallaby
E proprio come in guerra, lo scenario è pieno di mac erie e carcasse. Resti in putrefazione di wallaby, koala e uccelli di ogni tipo ingombrano la strada già molti chilometri prima di arrivare a Parndana e alla zona dei roghi. A uccidere questi animali non è stato il fuoco, sono stati gli uomini. «Li hanno travolti mentre cercavano riparo dalla devastazione; uomini e animali stavano facendo la stessa cosa, scappavano. Solo che i primi avevano la macchina e i secondi no», sorride amara Jenny Boyd da dietro il bancone del negozio coi souvenir mentre prepara il caffè per i volontari dei vigili del fuoco che presto torneranno dal fronte.
Jenny è una signora sulla sessantina. Zoppica per qualche vecchio acciacco e ha il volto segnato dalla stanchezza. Ogni tanto smette di parlare per prestare attenzione a quello che dice la radio: «Siamo circondati dalle fiamme – spiega senza mostrarsi troppo allarmata –. Intorno alla città, nel raggio di meno cinque chilometri, da nord a ovest, ci sono almeno tre fronti di fuoco, stanno divorando tutto da giorni e non si riesce a fermarli. Ora questi fronti stanno correndo verso di noi. Le previsioni dicono che domani il vento soffierà ancora più forte di oggi, quindi i fronti accelereranno. In radio interromperanno le trasmissioni e ci diranno di andare via. Ma noi non ce ne andremo. Almeno non io e mio marito. Noi vogliamo restare qui e continuare a fare il caffè e la cheesecake al limone per i vigili del fuoco. È giusto che ognuno faccia il suo, qui da noi come in tutto il resto dell’Australia».
Il mostro
Anche venerdì scorso, quando la cittadina è stata evacuata per la prima volta, Jenny e suo marito sono rimasti al loro posto. Quel giorno, il più drammatico per l’intero continente dall’inizio della stagione degli incendi, sono morte due persone di qui. Padre e figlio, Dick (78) e Clayton (43) Lang. Come molte altre persone della zona, da giorni stavano combattendo contro le fiamme, quando sono stati sorpresi e sbranati dal “mostro”. Il mostro è il nome che qui danno al fenomeno dei “piro cumulonembi”, masse nuvolose create da incendi particolarmente caldi, all’interno delle quali si generano tempeste di vento e lampi – proprio come capita durante le eruzioni dei vulcani o le esplosioni atomiche – questi vortici portano in aria tizzoni e ceneri roventi per poi scagliarle a distanza generando altri incendi. Èquesto fenomeno che sta devastando l’Australia nell’ultimo mese.
«Dick e Clayton – racconta Jenny – stavano tornando a casa durante una pausa e quello li ha beccati. A seicento gradi centigradi la macchina prima si è fermata poi è implosa». Li hanno trovati altri vigili molte ore dopo, mentre il mostro indisturbato continuava a seminare fiamme e morte. Uno stava ancora dentro il pick up, l’altro era stato sbalzato a 200 metri di distanza, chissà come era riuscito a scendere. Intorno ai due corpi senza vita, altra distruzione e altra morte per ettari e ettari. Si stimano trentamila koala, un numero imprecisato ma non troppo inferiore di canguri, e poi wallaby, uccelli, serpenti, insetti.
La strage dei koala
Un’apocalisse per l’isola – che sulla sua biodiversità prosperava – e anche per il p ianeta visto che molte delle specie sterminate erano praticamente già estinte altrove, come le api liguri (importate dall’Italia nel 1881), ma come gli stessi koala, i più lenti a fuggire quindi i più colpiti. Di molti – spiegano gli esperti – non verranno trovati nemmeno i resti, le alte temperature li hanno polverizzati, o fusi con i sassi. «Di fatto metà della popolazione sull’isola è stata spazzata via. Ma il problema è ancora più drammatico, perché gli incendi la loro durata e la loro estensione, hanno anche compromesso, probabilmente per sempre, l’habitat. Ci vorranno trent’anni forse di più per ripristinarlo parzialmente e non credo che abbiamo tutto questo tempo», spiega quasi in lacrime Dana Mitchell una ragazza di 28 anni che vista l’emergenza ha trasformato il parco turistico che aveva aperto dieci anni fa con il marito in un ospedale da campo per animali: «Gli abitanti delle zone che i vigili del fuoco sono riusciti a mettere in sicurezza sono tornati in possesso delle loro case, almeno di quelle che non sono andate distrutte. E dentro ci hanno trovato animali di ogni genere che sono riusciti a entrare e le hanno usate come riparo. Adesso ce li stanno portando qui con ogni mezzo». Dana li accoglie, li cura, li sfama e dà loro ospitalità in attesa di liberarli, ad emergenza passata: «Solo che se continua così, tra poche ore dobbiamo evacuare anche il parco. E il problema è che gli animali non possono lasciare l’isola e non sappiamo cosa fare».
Le fosse comuni
Tornati in possesso dei propri beni grazie a una breve tregua concessa dal vento nei giorni scorsi, gli abitanti dell’isola hanno però dovuto affrontare un’altra tragica emergenza. Quasi tutto il bestiame delle fattorie è rimasto ucciso dai gas o ustionato dalle fiamme. E così nelle ultime 24 ore molti proprietari sono stati costretti ad abbattere i propri capi di allevamento. Anche in questo caso stiamo parlando di decine di migliaia di animali. «Una mia amica – racconta ancora Jenny nel suo negozio – ha dovuto eliminare trentamila pecore, quando è tornata alla fattoria dopo l’evacuazione di venerdì scorso le ha trovate quasi tutte morte o moribonde. Le ha seppellite in una enorme buca nella sua proprietà. Lo stesso ha fatto la mia vicina di casa con i suoi cavalli. Erano ustionati, non riuscivano a stare in piedi, il marito li ha dovuti abbattere e poi con il trattore li hanno buttati nella buca. Quando mi ha raccontato cosa aveva fatto a quelle bestie ha avuto una crisi isterica».
Le responsabilità
Jenny scuote la testa. «Qui noi siamo abituati agli incendi. Ma in tanti anni che vivo qui un anno così non l’avevo mai visto. Non è minimamente comparabile alle stagioni precedenti. Non riesco a spiegarmi cosa sia successo. Io non so se, come si dice, è colpa dei cambiamenti climatici. Stanno facendo molte polemiche su questo. Ma io non so che dire. Certo, il fatto che sia andata distrutta una superficie di foresta pari a due volte le dimensioni del Belgio, suggerisce che forse sia successo qualcosa di strutturale. Però dobbiamo anche dire che nessuno, almeno qui da noi, ha fatto manutenzione della foresta. Abbiamo smesso di fare gli incendi controllati di inverno, come si faceva una volta, non abbiamo creato i sentieri tra i vari appezzamenti, le zone di contenimento... Insomma, nessuno ha avuto cura di questa terra. E adesso la terra si vendica». Un vigile del fuoco seduto al tavolo ha ascoltato tutto, annuisce ma non aggiunge una parola. È sudato, ha finito la sua cheesecake al limone, ringrazia e fa i complimenti, «però – si raccomanda mentre rimette il casco – adesso basta con le torte, Jenny. Domani per favore andatevene anche voi».