Il Messaggero, 9 gennaio 2020
Intervista ad Antonio Manzini
Ah l’amore l’amore, da oggi in libreria, è l’ultimo, attesissimo romanzo di Antonio Manzini, con Rocco Schiavone come protagonista: un libro riuscito e divertente, che mantiene ancora tutta la freschezza degli esordi. «Finché mi diverto continuo», dice l’autore.
Lei passa per essere uno scrittore molto schivo. Nell’ormai celebre scala delle rotture di Schiavone, a che livello è un’intervista?
«Dipende Scherzo, meno male che mi chiamano, ci sono scrittori che non si filano di pezza».
Quali sono le cose più sgradevoli della sua vita quotidiana?
«Più o meno quelle di Rocco: è tutto un po’ autobiografico».
Coincidono?
«Sì, a parte il lavoro: grazie a Dio, risolvere i casi non mi compete. Per il resto, sono più o meno le stesse rotture».
Lei ormai scrive un unico grande romanzo che continua, da un titolo all’altro. Da dove ripartiamo stavolta?
«Dal precedente, Rien ne va plus: Rocco è stato ferito in una sparatoria ed è in ospedale, dove ha subito un intervento di nefrectomia – gli hanno asportato un rene colpito da una pallottola. Gli capita tra le mani questo caso di cui lui non si dovrebbe nemmeno occupare, perché è ricoverato».
E invece?
«Il caso riguarda il chirurgo che ha eseguito lo stesso intervento su di lui; e c’è qualcosa che non torna. Rocco non può stare fermo, non sa cosa fare in ospedale».
Sì e mangia solo panettone, perché odia il cibo che gli portano.
«Sì. Mi sa che mi faranno causa quelli dell’ospedale di Aosta».
Davvero?
«Ogni volta che si scrive qualcosa di un luogo, c’è un sacco di gente che s’innervosisce. Se si parla male di Roma non m’importa assolutamente niente; invece ci sono un sacco di persone che si sentono offese se parli male della cittadina in cui vivono».
È successo anche a Houellebecq, con il paese di Niort: lo definì il più brutto mai visto in Serotonina. Scoppiò un putiferio.
«Sì è vero, è vero (ride, ndr). Quando ho scritto che Rocco diceva a un poliziotto: Se rompi i coglioni ti mando a Sacile del Friuli, non sa quanta gente si è sentita offesa. Io ho cercato di spiegare che, a Roma, era lo spauracchio tipico di quando facevi il militare, e ti mandavano nel posto che ritenevi più sperduto del mondo».
Rocco riesce a entrare nel cuore dei lettori proprio perché, nel bene e nel male, viene percepito come una persona vera. È d’accordo?
«Probabilmente le contraddizioni ci accomunano un po’ tutti. Quando ero piccolo mi piaceva leggere libri d’avventura, con quei bellissimi eroi, molto maschi, che sapevano fare cose pazzesche Penso per esempio ai libri di Salgari, oppure a Robinson Crusoe. Da ragazzo volevo essere tutto d’un pezzo, uno che diceva una cosa e la manteneva. E invece la vita reale non è così. Quando facevo teatro, a 23 anni, prendevo un testo scritto da geni come Strindberg, Ibsen, Osborne, Pinter e mi chiedevo perché quei personaggi facessero delle cose per poi rinnegarle. In realtà, è così che si racconta l’anima degli esseri umani».
La Polizia di Stato è stata critica nei confronti di questo vicequestore che fuma spinelli e usa metodi poco ortodossi.
«Non è vero, sono stati solo i sindacati di destra a prendersela. Molti poliziotti mi hanno detto di amare questo personaggio».
Ormai lei scrive un unico, grande libro a puntate.
«Ripetere lo stesso personaggio è noioso; e quindi ho trovato giusto farlo evolvere come tutti noi. Ci si può innamorare, cambiare opinione politica, squadra di calcio, moglie».
Un po’ come ha fatto Camilleri con Montalbano. Maigret, invece, è sempre uguale se stesso.
«Avere la graniticità di Simenon è difficile; lui non s’annoiava, ma io – che sono assolutamente inferiore a lui – non ce la faccio. Mi piace far crescere i personaggi, e magari sostituirli. Nel prossimo libro sto già pensando a un paio di personaggi che spariranno».
Nei suoi libri conta di più la ricerca della soluzione del caso o la commedia disseminata nell’intreccio per arrivarci?
«La seconda. Dopo l’adolescenza mi sono reso conto che esisteva un signore – un pazzo secondo me – che non conoscevo come scrittore, e che si chiamava Balzac. Ha scritto una cosa immensa, la Comédie humaine, tutti i suoi romanzi legati in un meraviglioso affresco di un’epoca. La serialità l’ha inventata lui».
Le piacerebbe scrivere qualcosa di completamente diverso?
«Sì, lo sto già facendo».
Ci può anticipare qualcosa?
«È un romanzo sui rimorsi, il senso della giustizia, l’amore. Tratta di una madre a cui è morto un figlio in una rapina andata male. Si dovrebbe intitolare
Il primo giorno di quiete».
Quando ha deciso di fare lo scrittore?
«Ci sono capitato per sbaglio: è stata colpa di un bravissimo scrittore, Massimiliano Governi, e di Martina Donati, che ora si occupa di marketing per una casa editrice. Avevo scritto un monologo che secondo me era adatto al teatro; invece Governi mi disse: No, questo è un romanzo. Così, uscì il primo libro per Fazi. Pubblicai un secondo libro con Einaudi; ma poi mi fermai perché dovevo campare».
Inizi non facili, quindi?
«Sì, ma sono stato fortunato perché non mi sono massacrato di frustrazioni, non ho accumulato cattiveria. Per tanti anni non ho scritto niente, continuavo a fare l’attore per guadagnarmi da vivere. Finché, per caso, parlo del personaggio di un poliziotto a un mio amico fraterno, uno scrittore molto importante; e lui mi dice: Perché non provi a scriverlo?»
Chi era lo scrittore?
«Niccolò Ammaniti. Guarda che è divertente, mi disse. Boh non lo so, risposi. Allora facevo sceneggiature per Canale 5, cose inquietanti. Ho cominciato a scrivere, per vedere cosa usciva fuori. Poi, casualmente, il primo romanzo di Rocco Schiavone è finito a Sellerio».
Un ricordo di Camilleri?
«Eravamo molto amici, molto legati. Abbiamo fatto tre spettacoli di teatro assieme, finché lui è diventato uno scrittore famoso, ha cominciato ad avere meno tempo. Andrea amava molto i quadri di mio papà: si sentivano spesso».
Suo padre artista, Francesco.
«Se avessi saputo dipingere, l’avrei fatto anch’io. È stato lui a invogliarmi alla lettura. Voleva farmi leggere i classici; ma io di nascosto, da adolescente, leggevo roba che lui detestava, come Lovecraft o Stephen King. Voleva che leggessi Cechov, Turgenev, Dostoevskij: io non sempre ero all’altezza, li ho dovuti rileggere da grande. A quindici anni suonavo, volevo fare il rockettaro, leggevo Edgar Allan Poe – che faceva molto heavy metal – avevo i capelli lunghi, altri sogni. Papà mi diceva sempre: se rimorchi una, entri in casa sua e non vedi libri, non ci perdere la testa»
E lei l’ha seguita questa raccomandazione?
«Eccome, anche con gli amici, la prima cosa che faccio entrando in casa di una persona è vedere quanti libri ha».
Se si potesse svegliare nella pelle di qualcun altro, chi le piacerebbe essere?
«Maupassant. Come scriveva! Oppure, ma solo per divertimento, vorrei essere Tardelli quando segna a Spagna 82 contro la Germania».