La Stampa, 8 gennaio 2020
L’enigma dei bozzoli di carbonio nelle prime galassie
«I buchi neri potrebbero essere più antichi di quanto pensiamo». Per il cosmologo Andrea Ferrara questa, al momento, sembra essere l’unica spiegazione plausibile alla diffusione delle gigantesche nuvole di carbonio gassoso scoperte dentro e fuori le prime galassie.
Ferrara sta ancora cercando di «metabolizzare» le sorprendenti conclusioni a cui, insieme con il suo gruppo di ricerca della Scuola Normale di Pisa, in collaborazione con alcuni colleghi internazionali, sono arrivati in uno studio pubblicato sulla rivista «Astrophysical Journal». «I dati - aggiunge - mostrano per la prima volta che gli atomi di carbonio prodotti all’interno delle stelle primordiali sono stati trasportati a grandi distanze da potentissimi venti galattici, "inquinando" lo spazio tra le galassie». Questi bozzoli di gas, il «primo inquinamento» dell’Universo, appunto, sono stati osservati molto lontani dalle stelle in cui si sono stati generati. Si estendono, infatti, per oltre un raggio di 30 mila anni luce attorno a galassie primordiali distanti circa 13 miliardi di anni luce dalla Terra.
Qualcosa di sorprendente, che nessuna teoria aveva previsto e che spinge i cosmologi a fare nuove domande e a cercare nuove risposte. «Cosa è riuscito a spargere tutto questo carbonio nell’Universo?», è la domanda a cui ora Ferrara e gli altri studiosi stanno cercando di rispondere. E’ un interrogativo a cui prima neanche pensavano. I ricercatori, infatti, non avevano previsto che i dati raccolti da «Alma» («Atacama Large Millimeter Array»), il più potente radiotelescopio al mondo, costituito da 66 antenne collocate sulle Ande del Cile, li avrebbero portati di fronte a questo dilemma.
«Abbiamo raccolto tutti i dati che contengono segnali radio dagli ioni di carbonio nelle galassie più remote che conosciamo», afferma Seiji Fujimoto, astronomo all’Università di Copenaghen e Ph.D. all’Università di Tokyo, nonché autore principale dello studio. «Combinando i dati, abbiamo ottenuto le informazioni più accurate a disposizione al momento. Ottenere un set di dati della stessa qualità - prosegue - con una osservazione singola richiederebbe 20 volte più tempo di quanto tipicamente disponibile con "Alma". Questa tecnica ci ha permesso quindi di ottenere un risultato unico ed eccezionale per le sue implicazioni».
Considerato che elementi pesanti come il carbonio e l’ossigeno non sono stati prodotti dal Big Bang, ma che si sono formati più tardi dalla fusione nucleare nelle stelle, è difficile spiegare come è possibile che ci sia così tanto carbonio, che si è diffuso così a grandi distanze nell’Universo. «Incrociando i dati di "Alma" con quelli del telescopio spaziale "Hubble", abbiamo capito che le nubi di carbonio osservate sono quasi cinque volte più estese delle galassie da cui sono state espulse», spiega Masami Ouchi, professore all’Università di Tokyo e all’Osservatorio Astronomico N azionale del Giappone.
«La quantità e l’estensione del gas ricco di carbonio espulso da queste galassie supera di gran lunga le nostre aspettative - sottolinea dice Ferrara -. Poiché nessuno studio teorico aveva previsto l’esistenza di questi enormi "bozzoli" di carbonio attorno alle prime galassie, la scoperta potrebbe richiedere una sostanziale revisione della nostra comprensione dell’evoluzione cosmica. Ma è necessario incorporare - prosegue - qualche nuovo processo fisico nelle simulazioni cosmologiche che stiamo conducendo. Con il team della Normale e i colleghi stiamo freneticamente lavorando per interpretare questa sorprendente scoperta».
Per il momento ci sono soltanto vaghe ipotesi. «E’ possibile che già 500 milioni di anni fa ci fossero buchi neri: chi lo sa?», sottolinea Ferrara. Il team internazionale sta ora utilizzando «Alma» e una serie di altri telescopi per esplorare ulteriormente le implicazioni della scoperta. Ma questo probabilmente non basterà. «E’ necessario, infatti, osservare le stesse galassie concentrandoci sui raggi X che i buchi neri emettono - dice Ferrara -. Oggi abbiamo i satelliti "Xmm" e "Chandra" che sono sensibili proprio ai raggi X, ma sono vecchi e probabilmente non possono aiutarci. Il prossimo satellite - prosegue - arriverà solo nel 2030. Per questo i nostri sforzi dovranno concentrarsi su metodi alternativi».
Una cosa è sicura: per quanto le nostre tecnologie e le nostre simulazioni siano avanzate, ogni passo che riusciamo a fare in avanti porta sempre a interrogativi più grandi. Frustrante? «No. Per noi scienziati è sorprendente ed eccitante».