Avvenire, 8 gennaio 2020
Hindi, una sola lingua nel futuro dell’India?
Una recente dichiarazione di Amit Shah, ministro dell’interno e presidente del partito di maggioranza Bharatiya Janata Party (Bjp), è sembrata ancora una volta sollevare in India una ’questione della lingua’ rimarcando la necessità di un idioma nazionale individuato nell’hindi, oggi la principale tra le 22 lingue designate come ’ufficiali’ nel grande Paese asiatico. In qualche modo delegittimando l’uso dell’inglese, nonostante la sua ancora ampia diffusione a oltre settant’anni dalla fine del regime coloniale.
«Non si può fare politica con l’hindi, ma i politici indiani come ovunque usano argomenti sensibili per i loro interessi, creando così divisioni. Detto questo, nel ragionamento di Amit Shah non ho individuato elementi di discriminazione linguistica. Sarebbe stato paradossale, dato che la storia ha mostrato che il leader storico del Bjp, gruppo-guida dell’induismo politico, Atal Bihari Vajpayee è stato uno dei migliori oratori in lingua hindi che abbiamo mai avuto. Lo stesso vale oggi per il primo ministro Narendra Modi, pure leader del partito, la cui lingua madre è peraltro il gujarati». Il commento è dello scrittore, paroliere e intrattenitore Divya Prakash Dubey, astro emergente di una letteratura hindi che si rivolge a un ’bacino’ naturale di 322 milioni di individui e - in modo non esclusivo a centinaia di milioni di altri in India e all’estero.
Per Dubey, è «logico » che non ci debba essere una lingua imposta sulle altre. D’altra parte, la diffusione della cinematografia in lingua hindi non esclude alcuna parte dell’India e da essa deriva il successo al limite dell’idolatria di ’star’ bollywoodiane del calibro di Shahrrukh Khan e Amitabh Bhacchan ora come, in passato, Raj Kapoor.
Come risponde il giovane intellettuale Dubey, sarebbe errato associare l’utilizzo di una lingua a uno specifico ambito culturale, sociale o religioso. «Io credo che la bellezza delle religioni stia nella varietà, non nel contrasto o nell’esclusivismo. L’hindi è nei fatti una lingua inclusiva, modificabile secondo le aree di provenienza, la collocazione sociale, l’attività professionale. Una lingua che ha nel tempo elaborato un vocabolario arricchito dal contributo di fedi diverse. Una vera lingua franca che fino all’indipendenza era semplicemente hindustani, ovvero ’lingua dell’India’».
Oggi l’hindi resta diffusa in una vastissima area del Subcontinente indiano e anche in buona parte della diaspora indiana, differenziata regionalmente ma mutualmente comprensibile da tutte le componenti della società. A indicare come la lingua non sia strumento di divisione ma vittima delle divisioni di natura politica, il fatto che dall’indipendenza e separazione tra India e Pakistan, l’hindustani si è differenziato in due lingue: l’urdu, oggi lingua nazionale in Pakistan; l’hindi, lingua tra quelle indicate nella Costituzione come ufficiali in India. Addirittura, l’uso dell’alfabeto arabo-persiano oggi esclusivo dell’urdu, era alla nascita dei due Stati predominante su quello devanagari in cui viene attualmente scritta l’hindi come pure l’antico sanscrito.
«Mi sembra chiaro che se oggi alcuni dicono che l’urdu è diverso dall’hindi ne fanno una questione politica, perché nella quotidianità la gente non si cura di quale variante stia usando. Semplicemente usa quelle espressioni che permettono ai pendolari di recarsi ogni giorno in città, di lavorare in ufficio, di fare acquisti al mercato», ricorda Dubey.
«Prendo me stesso ad esempio. La mia lingua è il bhojpuri, una variante hindi diffusa
nello Stato di Uttar Pradesh, ma ho studiato l’inglese perché convinto che fosse indispensabile per la comprensione dei miei connazionali ovunque in India, per accedere a un impiego. Invece mi sono ritrovato a parlare spontaneamente la mia lingua madre quasi ovunque, utilizzando vocaboli specializzati secondo luogo e occasioni. Inserendo anche vocaboli inglesi e persino italiani se utile. Oggi togliere dall’hindi i vocaboli considerati retaggio dell’urdu, come pure altri di provenienza straniera, vorrebbe dire mutilarla. Io vivo a Mumbai, dove l’immigrazione resta sostenuta e quindi una parte consistente della società è di origine meridionale, di aree che hanno tradizioni linguistiche diverse dalla mia. La conseguenza è che, come molti altri, parlo quotidianamente un mix spontaneo di hindi e inglese e questa lingua uso anche nei miei spettacoli e conferenze». Come vede lo scrittore Dubey il rapporto tra l’hindi e inglese, competitivo o cooperativo? «Al di fuori delle aree naturalmente hindi, l’inglese è usato ma generalmente può essere sostituito dall’hindi. Solo il 10 per cento degli indiani possono parlare inglese in modo fluente, gli altri lo usano in un mix di varia gradazione con lingue locali, ma solo l’hindi permette di integrarlo o sostituirlo senza problemi perché unica lingua panindiana. Quanto alla sua estraneità, mi piace paragonarla allo yoga, nato in India, esportato e oggi rientrato in forme anche perdute da noi. Così è l’hindi, tornata indispensabile per le sue caratteristiche, che sono anche quelle di suscitare vibrazioni, connessioni profonde negli indiani. Nello Stato del Bengala occidentale, patria di Rabindranath Tagore, molti non parlano il bengalese, lingua madre del Premio Nobel, ma usando l’hindi possono perfettamente afferrare il genio dello scrittore. Chi scrive libri di successo lo fa anzitutto come se scrivesse ad amici, conoscenti, in una lingua condivisa anche se non perfetta e ogni lingua cresce sulla strada prima che nelle università, non può essere contenuta. Nel momento in cui cerchiamo di trarne l’essenza la perdiamo; nel momento in cui la si pone in un museo, la lingua è morta».