Avvenire, 8 gennaio 2020
Negli Usa il matrimonio è un privilegio di classe
Gli americani hanno meno figli che mai e il tasso di fecondità, in calo da quattro anni, comincia a preoccupare demografi ed economisti. Allo stesso tempo la classe media statunitense perde potere d’acquisto e la disuguaglianza sociale aumenta, nonostante la produttività sia alle stelle e la disoccupazione ai minimi storici. Un quadro sociale così complesso sta costringendo la sinistra Usa a rivedere gli strumenti che propone tradizionalmente ai propri elettori per cercare soluzioni ideologicamente non ortodosse. Come quella che sta emergendo con prepotenza in questi mesi nel dibattito liberal: e se una risposta ad alcuni dei problemi che affliggono la società americana fosse, semplicemente, il matrimonio? Fino a una decina d’anni fa, sarebbe stata un’idea impensabile. Per quasi cinquant’anni il matrimonio è stato infatti una fonte di profondo conflitto culturale negli Stati Uniti. Dagli anni ’60, il Paese si è diviso sul valore delle unioni coniugali riconosciute dallo Stato secondo prevedibili linee destra/sinistra, con interpretazioni opposte del ruolo dell’istituzione nella formazione e la stabilità della famiglia, nell’uguaglianza razziale, nei diritti delle donne e nei valori di base della società. Ma la realtà è cambiata. Se negli anni Ottanta la divisione principale fra coppie sposate e non sposate era culturale ed ideologica, oggi sono le élite liberal (concetto che negli Stati Uniti corrisponde a una posizione di stampo socialdemocratico e al partito democratico), ben istruite, spesso laiche, a far rivivere la tradizionale famiglia con due genitori e un impegno comune a unire le forze per avere figli e investire nel loro futuro. I dati demografici sulla denatalità nascondono infatti particolari interessanti. L e coppie americane hanno meno bambini, ma vorrebbero averne di più, tanto che il divario fra desiderio e realtà è al massimo degli ultimi 40 anni, ma solo per le donne non sposate. La fecondità tra le donne sposate è infatti aumentata. Analogamente, se quasi la metà della generazione dei millennial (dai 23 ai 38 anni circa) è sposata, un altro 22% sostiene che convolerebbe a nozze, se si trovasse «nelle condizioni per farlo». Chi, allora, oggi, negli Stati Uniti si sposa e resta sposato? Il Pew Center, un think tank liberal, offre alcune risposte: oggi la probabilità di un primo matrimonio della durata di almeno 20 anni è del 78% per una donna laureata, del 49 per una donna con qualche anno di università e del 40% per una donna con un diploma di scuola superiore o meno. Negli anni ’80, al culmine della rivoluzione del divorzio, non vi era alcuna differenza nei tassi di divorzio per livello di istruzione. E mentre i tassi complessivi di matrimonio negli Usa in cinquant’anni sono scesi dal 72% al 51%, nel- l’America più ricca e istruita i legami coniugali rimangono forti, a circa il 76%. «Sempre più, il matrimonio sta diventando un indicatore del privilegio di classe in America. Se i progressisti vogliono affrontare il flagello della disuguaglianza, il calo dei matrimoni è un problema che non possono ignorare», spiega Will Marshall, presidente del Progressive Policy Institute.
I n effetti, confrontando i periodi dal 1989 98 al 2010-2016, la banca centrale Usa, la Federal reserve, ha riscontrato un calo di 2,2 punti percentuali nei tassi di matrimonio per i bianchi senza titolo di studio superiore: la stessa classe che è rimasta storicamente immune all’appello della sinistra culturale e della rivoluzione sessuale. Intanto gli economisti Robert Lerman e Bradford Wilcox quantificano i benefici concreti del matrimonio, stimando che il reddito medio delle famiglie con bambini sarebbe più alto del 44% oggi se gli americani si sposassero allo stesso ritmo del 1980. Per la sinistra, è un vero campanello d’allarme: «La disuguaglianza oggi deriva dall’intricata interazione di cambiamenti economici e culturali, e non sarà annullata semplicemente ridistribuendo la ricchezza dalle famiglie benestanti a quelle di basso reddito. L’alto tasso di matrimoni nell’America della classe medio-alta rende chiaramente evidente il legame tra la struttura familiare e il benessere», continua Marshall.
La sinistra vuole dunque invertire la tendenza. «I liberal hanno cominciato a identificare il matrimonio come una soluzione alla disuguaglianza – scriveva di recente sul New York Times l’opinionista progressista Tom Edsall –. Accanto ad azioni come aumentare il salario minimo, rafforzare i sindacati e tassare i ricchi per pagare nuovi benefici sociali per le famiglie con mezzi modesti, i progressisti parlano con sempre maggior frequenza del matrimonio, che non è più visto come una sgradita distrazione dalle questioni di potere economico. Molti, se non la maggior parte, dei liberal sono profondamente turbati dalla disfunzione familiare. E gli studiosi di sinistra ora riconoscono che la rivoluzione ses- suale e il movimento dell’autonomia personale hanno avuto costi significativi, e non solo guadagni».
Tali conseguenze negative includono l’esplosione del divorzio, l’assenza paterna e le crescenti legioni di bambini cresciute in famiglie monoparentali. Per capire quanto il dibattito sia cambiato, basta pensare che nel 2002 Sara McLanahan, docente di sociologia a Princeton, nel saggio ’Vita senza padre’ scrisse che: «I bambini cresciuti da un solo genitore sono svantaggiati. Hanno maggiori probabilità di abbandonare la scuola, meno probabilità di frequentare l’università e di laurearsi rispetto ai bambini cresciuti da entrambi i genitori biologici. Le ragazze di famiglie senza padre hanno maggiori probabilità di diventare sessualmente attive in giovane età e di avere un figlio al di fuori del matrimonio. I ragazzi senza padre hanno maggiori probabilità di avere difficoltà a trovare (e mantenere) un lavoro». All’epoca la sinistra attaccò il documento come ideologicamente motivato. Oggi lo usa come avvertimento a non sottovalutare l’importanza del legame coniugale. «Il calo dei tassi di matrimonio è preoccupante – affermano Isabel Sawhill e Joanna Venator del gruppo progressista Brookings Institution –. È vero che un alto numero di bambini viene allevato da coppie conviventi, ma negli Stati Uniti queste relazioni tendono ad essere instabili e di breve durata». Tre intellettuali di sinistra si sono spinti fino a pubblicare un “Manifesto pro matrimonio” sulla rivista Washington Monthly. David Blankenhorn, William Galston e Jonathan Rauch vi scrivono che, per la nazione nel suo insieme, il matrimonio è fondamentale. «Crea famiglia e rafforza i legami sociali. È un’istituzione che produce ricchezza. Il matrimonio funziona chiaramente come fonte di felicità e benefici per i bambini». Senza matrimonio, continuano, la vita familiare è «più fratturata e difficile, con più insicurezza economica, meno mobilità sociale, più stress infantile e un logoramento della nostra cultura comune». Sono parole sorprendenti, che aprono orizzonti inattesi. È possibile che in un periodo in cui i due principali partiti americani, democratico e repubblicano, sono politicamente sempre più agli antipodi, un impegno comune verso misure favorevoli al matrimonio possa creare una rara opportunità di collaborazione?