La Stampa, 8 gennaio 2020
I volontari che curano i piedi dei migranti
Alì non potrà mai saperlo, perché è morto il 21 settembre, dopo avere rifiutato l’amputazione dei piedi. Ma questa storia di persone che hanno deciso di non voltare la testa dell’altra parte armandosi di bende e disinfettanti per curare le ferite dei migranti arrivati in Italia dopo viaggi interminabili e respingimenti feroci, e di scarpe, per consentire loro di continuare il viaggio, comincia forse proprio dalla sua drammatica fine. «Lo scorso febbraio Alì era stato catturato e la polizia croata, dopo vari maltrattamenti lo aveva rimandato in Bosnia, tra la neve e il gelo, levandogli scarpe e vestiti. Alì era ritornato a Velica Kladusa, vagando per ore. I suoi piedi si sono congelati e sono andati in necrosi. Dopo mesi di sofferenze, è morto a causa della disumanità della polizia» accusa Lorena Fornasir, psicoterapeuta e attivista nella petizione alla Corte dei diritti dell’uomo contro «la tortura ai confini d’Europa». E se a costo della vita Alì ha scelto di non rinunciare ai piedi, perché senza non avrebbe avuto via di fuga, i piedi sono diventati il simbolo dei corpi e delle vite da salvare.
Il luogo di questa storia è Trieste, dove dal confine ogni giorno arrivano dieci o venti persone – soprattutto curdi, iracheni, afghani – lungo i sentieri di quella che è diventata la principale rotta migratoria verso l’Europa. In Bosnia ed Erzegovina, secondo l’Unhcr, nei primi 10 mesi del 2019 sono approdate oltre 45mila persone, a cui va aggiunto il numero imprecisato di chi non viene registrato. Tutti pronti a tentare quello che chiamano «il gioco»: l’ingresso in territorio comunitario attraverso la Croazia con il rischio di ritrovarsi intrappolati in campi «che versano in condizioni spaventose» o costretti a fronteggiare «i droni e i cani della polizia croata». Alla fine dell’estate scorsa, un piccolo gruppo spontaneo comincia così a ritrovarsi in piazza davanti ai giardini della stazione per curare i piedi dei ragazzi, magri e sfiniti.
Gli ultimi li incontrano il 6 gennaio: «Erano arrivati dai monti pieni di neve della Croazia e dai boschi gelidi della Slovenia, con piedi macerati, ferite infette, fame, giacche a vento di plastica – racconta Lorena – Se ne stavano incerti nel piazzale senza chiedere nulla e con una sola frase: “mom, big problem with Croatia and Slovenia police"». Con il marito Gian Andrea Franchi («147 anni in due» scherza), inizia a occuparsi dei migranti che entravano in Italia nel 2015, quando vivono a Pordenone. «Non eravamo volontari, ma li vedevamo arrivare in condizioni pietose, e siamo scesi in strada a portare aiuto non solo come gesto di solidarietà, ma anche come gesto politico. Per dire “tu per me esisti"». Nel 2018 iniziano anche a fare la spola con la Bosnia, con Bihac e Velika Kladusha, «a portare donazioni in denaro per sostenere le iniziative locali di chi si occupa di coloro che restano fuori dai campi ufficiali».
Due o tre volte a settimana, Lorena e gli altri vanno in piazza là dove i ragazzi si raccolgono sperando di poter salire su un treno che li porti in Nord Europa. Hanno con sè medicine e garze, ma anche vestiti e panini. «La cura dei piedi colpisce perché evoca l’immaginario cristiano – dice Gian Andrea Franchi, 82 anni, ex docente di filosofia, che con la moglie ha creato l’associazione Linea d’ombra – ma il nostro è un gesto politico verso persone che arrivano da Paesi devastati da politiche neocoloniali. È una forma di resistenza in una società basata su individualismo e indifferenza, e contro i micidiali decreti di Salvini». L’obiettivo ora è formare una rete, collegandosi a gruppi di altre città, creando nuove sinergie. Com’è accaduto con l’associazione Mamre di Borgomanero (Novara) che ha chiesto al calzaturificio Baroli di Gargallo 70 paia di scarpe morbide «ma con suola robusta per i piedi sofferenti dei migranti» e le ha consegnate nei giorni scorsi a Trieste. «Scarpe fatte per noi, con cura meravigliosa: non è solo assistenza, c’è un pensiero dietro questo gesto» sottolinea Lorena. Dice Adriana Giacchetti, che fa parte del “gruppo di cura": «È impossibile restare indifferenti. Escono dai boschi denutriti, ed è responsabilità nostra, di un’Europa che arma le polizie di vari Stati perché agisca come filo spinato: tutti raccontano di essere stati picchiati e rispediti in Bosnia, hanno storie tremende. Ma io credo che esista un’Italia solidale, nonostante le campagne mediatiche contro i migranti abbiano dato frutti nefasti». «Io abito sul Carso e li vedo passare a piedi – racconta Paola Spinelli, a lungo giornalista Rai – spesso sono poco più che bambini, in condizioni pietose, coi sandali, i piedi sanguinati. Alcuni hanno provato a passare otto o dieci volte: questo è il “game”, un gigantesco gioco dell’oca dove rischi di essere rimandato sempre al punto di partenza. Nel tentativo di passare, alcuni restano nei campi per anni. Hai un senso di impotenza. Poi basta che una persona si attivi, e tutto comincia».