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 2020  gennaio 07 Martedì calendario

Le buste paga dimezzate delle donne

Di questo passo, per azzerare le differenze di reddito tra donne e uomini bisognerà aspettare almeno un altro secolo. E non è detto che basti, dal momento che, ad esempio, per superare il gender pay gap pare davvero indispensabile una vera e propria rivoluzione culturale, capace di mutare profondamente l’organizzazione della società. “Non è una provocazione dire che alla disparità si impara ad abituarsi fin dal principio, se è vero che tra i 14 e i 17 anni chi percepisce una paghetta è il 42 per cento delle ragazze contro il 53 dei ragazzi”, dice Sandra Mori, data protection officer Europe per Coca Cola e ambassador di #InclusioneDonna, il network di 50 associazioni di manager, libere professioniste, imprenditrici e lavoratrici dipendenti che non si rassegnano alle conseguenze della disparità. Anche per l’economia del Paese che si permette il lusso di avere un tasso di occupazione femminile di appena il 49,5 %, contro una media europea del 63. E di posizionarsi al 126° posto nel mondo per parità di salario tra uomini e donne.
Mentre si registrano passi in avanti sul fronte della rappresentanza (nel 2018 la quota di donne nei consigli di amministrazione sono passate da meno del 6% al 36%, per effetto principalmente della legge Golfo-Mosca, secondo cui gli organi collegiali delle aziende quotate e società controllate debbano essere composti almeno per un terzo dal genere meno rappresentato), in Italia l’emergenza più grande continua a chiamarsi lavoro.
Il lavoro è poco “rosa”
La differenza tra l’occupazione maschile e quella femminile raggiunge quasi il 20%. E la forchetta, secondo Eurostat, si allarga nella fascia di età 20-49 anni, quando c’è di mezzo la gestione dei figli piccoli: i padri occupati sono l’83% contro il 55,5% delle donne, un record (negativo) in Europa. Confermato da un dato assai significativo (a cui Il Fatto ha dedicato tempo fa un’inchiesta): nella sola Lombardia sono state 10mila le donne che nel 2018 hanno gettato la spugna al rientro dal congedo di maternità, o a causa delle pressioni subìte.
Ma l’analisi del mercato del lavoro nel nostro Paese deve confrontarsi anche con la qualità dell’occupazione delle donne. Nella pubblica amministrazione, per esempio, doppiano i loro colleghi uomini nel ricorso al part time e utilizzano con maggiore frequenza permessi motivati da esigenze di cura dei familiari. Al contrario, gli uomini riescono a garantire una maggiore presenza sul luogo di lavoro, offrendo anche un maggior numero annuo di ore di straordinari che influiscono sulle retribuzioni lorde percepite. E persino nelle amministrazioni centrali dello Stato la presenza femminile tende a diminuire procedendo verso le posizioni più elevate in termini di responsabilità ricoperte e di retribuzioni percepite. “Il fatto che pur avendo titoli di studio mediamente più elevati, le dipendenti sono orientate a ricoprire posizioni che richiedono minori qualifiche e responsabilità potrebbe, almeno in parte, dipendere da un difficile raccordo tra i tempi di vita e lavoro” è la chiosa del “Bilancio di genere per il 2018” della Ragioneria generale dello Stato.
Il “gender pay gap” italiano
Per l’Eurostat, il gender pay gap nel nostro Paese è intorno al 6%. Sono dati però falsati, perché comprendono il settore pubblico dove i salari sono fissi. Se invece guardiamo solo al settore privato, la differenza tra uomini e donne, a parità di ore lavorate, sale al 19,6%. La penalizzazione femminile, del resto, inizia già all’ingresso nel mercato del lavoro. Secondo un rapporto di Almalaurea, a 5 anni dalla laurea non solo le donne trovano lavoro meno degli uomini, ma agli uomini viene offerto più frequentemente un contratto a tempo indeterminato. E il risultato finale della diversità lavorativa e le im-pari opportunità che accompagnano tutto il percorso di carriera presentano brutalmente il conto al momento della pensione: secondo l’Istat, le classi di reddito pensionistico oltre i 1.500 euro mensili sono popolate molto di più da maschi che da femmine.
Libere professioniste: un caso
Ma torniamo alle dichiarazioni dei redditi, perché oltre alla p.a. e ai dipendenti privati, il fenomeno delle disparità di genere va analizzato anche per i liberi professionisti. E la disparità, in questo, diventa estrema. E allora è il caso di fare i conti in tasca ad alcune categorie, come per esempio agli iscritti alla Cassa dei dottori commercialisti (una platea di 46.263 uomini e 22.289 donne): nel 2018, il reddito medio delle commercialiste è stato di circa 40.800 euro contro i 75.700 dei colleghi uomini.
Anche tra le toghe iscritte alla Cassa forense il risultato non cambia. La quota di rappresentanza femminile nella professione forense è fortemente lievitata negli ultimi decenni (dal 21% del 1995 al 48% del 2018). In molte regioni del centro-nord, il numero di donne avvocato ha già superato il numero dei colleghi. Eppure gli avvocati di sesso maschile continuano a realizzare guadagni di gran lunga superiori rispetto alle loro colleghe: rispettivamente, 52.777 euro contro 23.500 (dati 2017).
E che dire di architetti e ingegneri? Anche qui, analizzando i dati della Cassa previdenziale comune ad entrambi gli ordini professionali, le differenze resistono eccome. Nonostante tutto. Perchè anche in quest’ambito è in corso un crescente processo di femminilizzazione: nel 2018 le nuove iscritte a Inarcassa costituivano il 55% tra gli architetti (+11%), e il 35% degli ingegneri (+18%). Ma l’ingresso della componente femminile in questo settore è un fenomeno relativamente recente, se si pensa che le donne architetto con oltre 65 anni risultano solo il 10 per cento del totale. Ancora peggio per le ingegnere: quelle che hanno una lunga carriera alle spalle, ossia che rientrano tra i 9.758 professionisti over 65, sono solo lo 0,5% contro il 99,5%.
Ma non è ovviamente tutto. Perché, anche in queste due professioni, il divario tra i redditi dichiarati dagli uomini e quelli dichiarati dalla donne mostrano un abisso: 22mila euro il reddito per il professionista maschio, 14mila per le architette. Ancora peggio tra gli ingegneri: se un professionista maschio nel 2016 dichiarava circa 33 mila euro, il reddito di una collega donna era di appena 18.313 euro. E la chiamano parità.