il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2020
L’autotassa dei partiti
Il record è della Lega: 7,2 milioni di euro guadagnati nel 2018, in attesa di un bilancio 2019 che dovrebbe registrare una ulteriore crescita. La tassa più alta sul singolo parlamentare, invece, ce l’ha Sinistra Italiana, che ogni mese chiede 3.500 euro ai propri eletti. Sfogliando i dati sulle donazioni ai partiti – con la legge Spazzacorrotti ogni contributo sopra i 500 euro deve essere pubblicato online – si ha un quadro di come le forze politiche si arrangiano per stare in piedi. Lontani i tempi dei contributi pubblici milionari, resta l’imposizione – più politica che giuridica – ai propri parlamentari di versare ogni mese una quota per garantire il funzionamento della macchina. Anche se poi, come in ogni sistema di riscossione, i tesorieri fanno spesso i conti con morosi e “evasori”.
Noto è il caso del Movimento 5 Stelle, che però aggiunge ai 300 euro mensili destinati all’Associazione Rousseau una quota di restituzione che non viene destinata da attività politiche, ma va a finanziare attività per lo più sociali e economiche come le piccole imprese, le famiglie delle forze dell’ordine o la protezione civile.
A ridosso di alcuni eventi pubblici del Movimento, però, i vertici battono cassa alla ricerca di contributi extra: per Italia a 5 Stelle, la due giorni di incontri a Napoli dello scorso ottobre, i parlamentari hanno sborsato tra i 1.500 e i 2.000 euro, stessa cifra chiesta per sponsorizzare il comitato elettorale per le europee di maggio.
A incidere sui versamenti della Lega ci sono invece motivi giudiziari. Al di là del fortunato accordo con la Procura di Genova, che ha consentito di rateizzare il debito di 49 milioni in circa 75 anni senza interessi, il partito di Matteo Salvini deve comunque rientrare di 600 mila euro ogni anno, senza contare i fondi necessari all’attività politica. E così la quota richiesta ai parlamentari è di 3.000 euro al mese, anche se nell’elenco dei donatori c’è qualche assente di troppo.
È il caso per esempio di Armando Siri, che almeno fino a dicembre non risulta tra i parlamentari paganti, o del fondatore Umberto Bossi, anche lui senza bonifici registrati. Il bilancio del 2019 dovrebbe comunque sorridere ai leghisti, perché partendo dai 7,2 milioni dell’anno precedente si dovrà considerare il boom di eletti (che nel 2018 hanno iniziato a versare solo da marzo/aprile) e di nuovi eurodeputati, passati dai 5 della passata legislatura ai 29 attuali.
Problema inverso ha invece il Pd, che oltretutto da anni è alle prese con un serio problema di riscossione. Nell’ultimo bilancio approvato – relativo al 2018 – il tesoriere Luigi Zanda ha registrato “822.542 euro di crediti non ancora incassati” e per cui “è stata promossa azione di recupero” nei confronti dei parlamentari.
Il gettito dagli eletti era di 4,4 milioni per il partito nazionale e di altri 4,8 nelle dislocazioni territoriali, frutto di una autotassa di 1.500 euro imposta dal Nazareno a cui si aggiunge una quota variabile destinata alle segreterie regionali e comunali. Il difficile, però, è far rispettare le regole. Stando all’elenco pubblicato online e aggiornato a fine novembre, uno dei morosi è Luca Lotti: l’ex ministro ha infatti girato al partito 6.750 euro, pari a quattro mensilità e mezzo. Ancor peggio ha fatto Matteo Renzi, che ha smesso di finanziare il Pd ben prima della scissione di settembre. L’unico bonifico registrato risale infatti a febbraio, appena prima della vittoria di Zingaretti alle primarie, quando l’ex premier ha versato 6.500 euro (ne mancano, a spanne, almeno altrettanti). Poi più nulla, a parte i 10 mila girati sul conto di Italia Viva il 22 agosto.
La stessa Italia Vive oggi chiede un contributo minimo di 500 euro ai suoi parlamentari, cifra generalmente inferiore a quella pretesa da partiti con percentuali simili. Forza Italia, per esempio, richiede 900 euro al mese, potendo sempre contare sul prezioso supporto della famiglia Berlusconi (nel 2019 100.000 euro da Paolo, fratello di Silvio, e altri 100.000 da Fininvest), che copre così alcune morosità. Dai documenti risulta infatti uno “zero” alla casella dei versamenti fino a dicembre del senatore Luigi Cesaro, mentre del deputato Roberto Occhiuto c’è traccia solo nei 884 euro arrivati a giugno.
Più esigente Fratelli d’Italia: ogni mese Giorgia Meloni chiede ai suoi 1.500 euro, divisibili tra il partito nazionale e le sedi locali.
I versamenti degli eletti, però, sono storico retaggio dei vecchi comunisti ed è infatti Sinistra Italiana il gruppo con l’imposta più salata, stabilita addirittura nello statuto: “Ogni parlamentare nazionale o membro di governo è tenuto al versamento con scadenza mensile di una quota pari al 70% della propria indennità netta”. Tradotto: dei circa 5.000 euro netti guadagnati da ogni parlamentare (esclusi diaria e benefit vari), 3.500 tornano al partito.