il Giornale, 6 gennaio 2020
Biografia di Claudio Cecchetto raccontata da lui stesso
In tv Disco Ring andava in onda subito dopo La conquista del west e per un’intera generazione è stata l’unica finestra sulla musica internazionale, imperdibile. A «mettere i dischi» c’era un giovanissimo Claudio Cecchetto, jeans, caschetto e parlantina a mitraglietta. Da lì in poi è stato lui a filtrare le hit, a scegliere i personaggi che funzionavano e quelli no, per trent’anni buoni. L’hanno definito in tutti i modi: il re Mida dello spettacolo, il Burattinaio. Ma lui è «solo» uno che ha un intuito infallibile. «Perché guardo all’emotività, all’empatia», spiega. È così che ha scovato Jovanotti, Fiorello, Max Pezzali, Gerry Scotti. E ancora, Sandy Marton, Amadeus, Dj Francesco, Leonardo Pieraccioni.
Cecchetto nasce in un paesino del veneziano nell’anno in cui l’Italia canta Vola colomba e Papaveri e papere.
«Sono nato a Ceggia ma sono subito arrivato in città perché mio padre era insofferente verso la vita contadina. Ma è stato grazie alla campagna che ho scoperto Pink Floyd».
Che legame c’è tra i campi e i Pink Floyd?
«Una mucca, la copertina dell’album Atom heart mother. Ci rivedevo Ceggia, la sentivo familiare e l’ho comprata. In effetti poi il contenuto del disco mi è diventato molto familiare».
È stato quello il primo disco acquistato?
«No, il primo è stato La festa di Adriano Celentano, 45 giri. Il retro era Ringo. Non avevo ancora il giradischi ma siccome i miei me lo avevano promesso per Natale, io comprai il disco un mese prima, in attesa di poterlo ascoltare. Sono sempre stato un grande fan di Celentano, ancora prima che si presentasse a Sanremo di spalle».
È vero che gli aveva scritto per chiedergli se aveva una batteria usata da darle?
«Sì, non mi ha risposto ma quella lettera mi è servita molto. Quando sono diventato famoso e le lettere arrivavano a me, capivo perché i ragazzi mi scrivevano. Perché ero un punto di riferimento. Io non avevo scritto la lettera a tutti i cantanti ma solo a Celentano, che sentivo fratello».
Le scrivono ancora i ragazzi?
«Sì, eccome, forse perché rispetto al mondo che vedono, disattento alle loro ambizioni, in me vedono un realizzatore di sogni».
La differenza è che lei arriva da una musica materica, quella dei dischi. Ora è tutto impalpabile.
«Prima c’era solo quello. Come passavi la tua ora di musica se non guardando i testi sulla copertina? Ora mentre ascolti un brano dedichi attenzione a un sacco di altre cose. Lo vedo guardando i miei figli: si è perso il senso del possesso. Una volta compravi un disco e lo sentivi tuo, adesso ascolti file. Non è un male, è solo diverso».
Non è tra i nostalgici che pensano: i miei tempi erano meglio?
«No, sono un appassionato del futuro, forse perché sono uno che si annoia. Quando una cosa è fatta è fatta, mi chiedo cosa può essere fatto dopo. La mia curiosità mi spinge ad ascoltare anche la musica che non mi piace».
Della musica di oggi chi ascolta?
«La trap mi piace abbastanza. Ghali, Sfera Ebbasta, Mahmood. Ne faccio un ascolto professionale. Mi piace sentire come approcciano al ritornello, alla strofa. Mia moglie mi chiede come mai ascolto 50, cento volte lo stesso pezzo di anni fa. Io ogni volta ho un ascolto diverso, magari mi concentro sulla linea del basso, poi su come è incastrata la voce. Sono quasi uno studio di registrazione quando ascolto un disco».
Nell’elenco dei giovani da seguire c’è anche suo figlio Jody.
«Ha appena iniziato una trasmissione su DeaKids. Per lui fare questo è come andare al luna park. Io spero che nel divertimento possa intravedere una via di specializzazione ma mi fa piacere vedere che lo fa non con l’apprensione del dover riuscire. Io gli dico che a 24 anni deve capire cosa vorrà fare. Poi mi viene in mente che a me è successo tutto a 29 anni».
Gli dà consigli?
«Evito. Il consiglio lo vede in me e in quello che ho fatto. Sono dell’idea che per i figli il papà capisca sempre poco. Io comunque sono molto aperto: ok, la trap non sarà il rock, non sarà bella come la dance ma è la musica che rappresenta la loro generazione».
Però la musica «dei tempi», ammettiamolo, era più aggregante. Il Gioca jouer insegna.
«Il Gioca jouer era un flash mob. Dalla consolle mi ero accorto che in pista il pubblico amava fare lo stesso passo e allora da maestro cerimoniere lo coordinavo. Ma è ancora così. A luglio Max Pezzali sarà a San Siro per il Canta Max. Le sue canzoni le cantano tutti, è aggregante eccome».
Prima consolle?
«La prima alla Lucciola, una sala da ballo di Milano in cui suonavano dal vivo. Quando il gruppo si riposava, dal guardaroba mettevo i dischi. Poi al Pink Elephant ho avuto la prima consolle vera. Ma, a parte il sabato sera e la domenica pomeriggio, c’era poca gente, stile night, e allora mettevo anche Fred Bongusto e Peppino Di Capri. Insomma, il disc jockey era il cambia-dischi, ne doveva passare ancora di tempo per presentare la serata annunciando i nomi dei dj. Io quella soddisfazione l’ho avuta al Panthea, a Capodanno. Il mio nome era scritto in piccolo sui volantini, non mi pareva il vero».
Il suo Cecchetto chi è stato?
«Il punto di riferimento per me è sempre stato Renzo Arbore. Io per i giovani sono stato quello che è stato Arbore ma non al suo livello, inarrivabile. L’ho conosciuto al mio primo Sanremo nel 1980 e quando l’ho incrociato al bar dell’hotel mi ha detto: Tu sei bravo. Lui che diceva bravo a me, capito?».
Cita Celentano, Arbore. Entrambi avevano il loro clan. Come poi ha fatto lei.
«Mi sono ispirato soprattutto al clan di Celentano. Una volta venne in radio da me e mi disse che respirava l’aria del suo clan. Mi ricordo uno sketch suo con Don Backy, avevano fatto una scommessa e dissero: chi perde deve fare una canzone con un errore di grammatica. Vinse Celentano e Don Backy scrisse Ancora una volta ho rimasto solo. Geniale».
Cos’ha cercato nel suo clan? Cos’ha visto in Jovanotti, Max Pezzali, Fiorello?
«Vedevo che con loro mi divertivo. Li ho scelti emotivamente. Quando c’è la persona, la canzone la facciamo. Ai miei ho sempre solo dato pareri, non ho mai fatto il burattinaio. Tutto doveva partire dagli artisti, altrimenti non sarebbero durati così tanto. Io aiutavo a raffinare l’idea, il progetto. Vedevo oltre. Ad esempio, avevo intuito che dj Francesco avrebbe fatto carriera non come cantante ma come manager».
Ci racconta un flop clamoroso?
«Ci sono state delle persone sbagliate su cui ho investito. Ma ho una caratteristica: quando mi accorgo che una persona non funziona, smetto subito, proprio per non disperdere energie. Tento un’altra via. La grossa fortuna dei flop è che non si sanno, li ho bloccati in tempo».
Un nuovo Cecchetto c’è?
«Per essere come me non devi guardare il denaro e adesso è un po’ difficile. A me piacciono le star non le persone famose. Le star, quelle con la esse maiuscola, entrano nel cuore, le ami per la loro arte e non per la loro popolarità. Oggi è il contrario».
Altra rivoluzione alla Cecchetto: la nascita di Radio Deejay nel 1982.
«Le radio fino a quel momento viaggiavano molto sul repertorio pubblicato dalle etichette discografiche italiane. Ignoravano tutto quello che usciva nel resto del mondo. Io volevo fare una radio diversa».
Primo disco mandato in onda?
«Da Da Da del Trio. Pezzo allegro, leggero, perfetto per il nostro target. Era una radio per i giovani, a cui non pensava nessuno. Me li sono presi io. I discografici mi dicevano: ma i giovani non comprano, non hanno soldi. Sì, ma i giovani veicolano i genitori sui loro gusti, raccontano ai padri che “Jovanotti è uno forte”, chiedono di andare in vacanza nei posti “giusti”. Muovono l’economia, eccome. Grazie alla musica era nata la moda di Ibizia e Riccione. Fra 30 anni comanderanno i giovani, saranno più consapevoli sulle loro esigenze, molto più di oggi».
Sul suo rapporto con Linus si è detto di tutto. Amici o nemici?
«Ho venduto la mia quota all’Espresso e il gruppo si è dovuto alleare con qualcuno che mi venisse contro. Se non fosse stato lui, sarebbe stato un altro. La radio di ora è la riproduzione di quel che ho fatto io. Ai miei tempi era un work in progress ma poi si è fermato tutto e infatti non è più la prima radio italiana, che invece era la mission alla nascita».
Perché non ha venduto la radio a Berlusconi?
«Me ne sono stupito io stesso. E me l’ha chiesto anche lui. Gli ho fatto i nomi di quelli del suo staff a cui l’avevo proposto. Era tutta la sua dirigenza. E allora mi ha detto: “Salutami il mio amico Carlo Caracciolo”. Ammetto che mi è spiaciuto moltissimo».
È vero che le aveva chiesto di tagliarsi i capelli?
«Vero, nel periodo in cui conducevo Chewing gum, TeleMilano. Un giorno mi ha visto coi capelli corti e mi ha detto: “Oh, bravo, hai seguito il mio consiglio”. Ma ero solo a militare».
Passiamo alla Rai. Sanremo è arrivato molto presto.
«Molto. Per me il festival è sempre stato un evento, lo guardavo a casa con i miei. Avevo mille dubbi, arrivavo dal mondo dei locali, della musica straniera, cosa c’entravo io? Però volevano una conduzione giovane. Pazzesco come la Rai di allora era più moderna di quella di oggi. E poi parlavo veloce, mi dissero che così ci stavano tutti i cantanti».
Sbaglio o in casa ha altri talenti? Intendo sua moglie Mapi e i suoi libri Love book.
«Eh, del resto sono un talent scout, vuoi che in casa non mi porti un talento? Scrive storie d’amore. È una romanticona. Io sono un po’ più orsetto. Su di noi non ha scritto un Love book, il nostro libro d’amore è quotidiano e sempre in progress».
Ho letto un suo twitter sul voto. Quando si ipotizzava di levare il voto agli anziani, lei proponeva di darne diritto ai sedicenni.
«Bisognerebbe conoscere veramente quel che vogliono. Noi “anziani” votiamo, ma le conseguenze del nostro voto se le beccano i giovani. Altro che quelli che vanno negli ospizi a obbligare gli anziani a votare, quello è tremendo. Io sono per anticipare l’età del voto. I nostri sedicenni non sono quelli di un tempo».
Anche la politica andrebbe un po’ ringiovanita? Lei ci hai provato, candidandosi come sindaco a Misano adriatico.
«A momenti diventavo sindaco con una lista civica nata in due mesi. Ma visto che so che Dio mi vuole bene e me lo ha sempre dimostrato, se ha voluto che non ce la facessi c’è un motivo».
So che ha anche un passato da inventore. Precursore dei Bitcoin e progettatore della lattina con due buchi.
«Già. Pensai a Energy bank, un social in cui i protagonisti sopravvivevano accumulando energia e svolgendo attività per guadagnare soldi virtuali. L’idea era giusta, poi hanno inventato i Bitcoin. Ho anche tentato di produrre la lattina a due buchi, per condividerla. Altro che sugar tax. Ma andava contro gli interessi delle case produttrici. Più che sognatori bisogna essere un po’ più mecenati a questo mondo».
Ai ragazzi che sognano cosa dice?
«Uno su mille ce la fa. Però se uno scopre il proprio talento e lo coltiva con lo studio e la disciplina, ce la può fare. Arrivano da me e dicono: so cantare. Non basta. Jovanotti trasmette, è empatico».
Lo cerca ancora il talento dei giovani?
«Io non l’ho mai cercato. Le persone che ho lanciato gravitavano attorno a me. Generalmente se uno viene da me e mi chiede “mi lanci?” non è assolutamente da lanciare. Fiorello era arrivato in radio con Bernardo, fratello di Lorenzo, ma solo perché gli avevano detto che c’erano parecchie belle ragazze. Chiaramente uscendo la sera a mangiare, ho visto quanto era brillante. Comunque i giovani vanno incoraggiati a impegnarsi».
A lei chi ha incoraggiato?
«Marcello, lo storico proprietario del Panthea. Ora non c’è più, ma lo vedo ancora che al mio debutto al locale mi viene incontro in consolle con passo deciso. Il dj che mi avrebbe passato il testimone aveva messo gli otto dischi più belli e con me invece la gente aveva smesso di ballare, pista vuota di colpo. Pensavo che Marcello mi licenziasse. Invece mi disse: “Dimostrerai a tutti che sei il migliore"».