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 2020  gennaio 06 Lunedì calendario

I no vax del parto

Lo slogan dell’«utero è mio e me lo gestisco io» torna prepotente, direttamente dal Sessantotto. Con l’unica differenza che il femminismo degli anni Duemila non riempie le piazze con cartelli e picchetti ma si autoalimenta su blog e social network in una sorta di pericolosa succursale del movimento Me Too. 
Nel mirino ci sono le sale parto degli ospedali, sinonimo – secondo le novelle femministe – di una volontà di «industrializzare la gravidanza e la nascita». In Europa e in Italia negli ultimi tre anni si sono moltiplicati i movimenti di denuncia contro le violenze ostetriche e i maltrattamenti ginecologici. Per capirsi, per violenza ostetrica si intendono anche la rasatura pubica, l’incisione del perineo, la flebo di ossitocina per indurre le contrazioni, il parto cesareo non necessario, la pressione manuale sull’utero (manovra di Kristeller), tutte pratiche usate spesso e volentieri da medici e ostetriche. A volte, è vero, senza che ce ne sia un effettivo bisogno o senza che la paziente abbia realmente letto il consenso informato che firma prima del travaglio. Tuttavia le nuove paladine delle partorienti combattono queste manovre da sala operatoria con una tale spregiudicatezza che sembra le usino più come pretesto per una battaglia politica che altro. 
Il guaio è che stanno mettendo in piedi un tam tam mediatico pari a quello contro i vaccini. E ormai il meccanismo è chiaro: se una notizia falsa rimbalza dal sito di un’associazione a un blog e da un forum a un tweet diventa automaticamente vera. Una volta insinuato il tarlo, è un attimo che le donne si sentano improvvisamente violate dai medici ospedalieri e comincino a demonizzare la categoria dei ginecologi. E allora nella loro mente tutto diventa violenza, anche una normale depilazione inguinale in sala operatoria o un «Forza signora, spinga». 
IL PARTO DI PROTESTA
I movimenti che promuovono la campagna mediatica «Basta tacere» chiedono di riconoscere la violenza ostetrica come reato, ricalcando la proposta di legge, ferma alla Camera dal 2017, di Adriano Zaccagnini (Liberi e Uguali) che, tanto per capirci, è stato uno degli anti vaccinisti più attivi. E chiedono anche di boicottare il parto in ospedale per promuovere quello in casa. «L’ospedalizzazione di massa del processo della nascita – sostiene l’associazione culturale Ostetriche Parto a domicilio (che non ha nulla di scientifico né di medico) – significa per molte donne un percorso obbligato, non solo in sala parto ma anche in gravidanza. Noi crediamo nella capacità di fare scelte autonome e responsabili nei propri processi di salute». 
Solleticare nelle donne la capacità di decidere con la propria testa per sé e per il futuro bambino può tuttavia essere pericoloso. In nome della presunta rivendicazione di un diritto, molte mamme vengono indotte a rinunciare alla tutela dell’assistenza ospedaliera (così come hanno rifiutato i vaccini per i figli) e a praticare «il parto di protesta», come lo chiama l’associazione Nanay, per dire no alla nascita troppo medicalizzata. Se ognuno è libero di scegliere, è altrettanto vero che partorire fuori dall’ospedale, ad esempio nelle case maternità (con solo ostetriche e zero medici) comporta parecchi rischi: in caso di emorragie, tromboembolie, problemi di ossigenazione del neonato e complicanze di vario tipo, è fondamentale intervenire in pochi minuti. E partorendo in una casa maternità, al massimo si può chiamare un’ambulanza. 
In Italia al momento i bambini che nascono in casa sono solo 500, nelle case maternità 120mila. E sarà anche una pratica molto radical chic ma secondo i medici più che una moda è un nuovo allarme sociale: «Il ritorno al parto domiciliare è una regressione sul piano scientifico» scrive sul sito della Fondazione Veronesi l’ex direttore di terapia intensiva neonatale del Policlinico Gemelli, Costantino Romagnoli. 
«Le complicanze spesso sono imprevedibili – precisa Antonio Lanzone, professore del Gemelli e presidente della Commissione nazionale dei corsi di laurea di ostetricia -. Non possiamo accettare metodologie che ci portano indietro di anni. E questi movimenti non le facciano passare come una maggior umanizzazione del parto perché a quello siamo già molto attenti in ospedale. Non si faccia retromarcia rispetto al progresso». 
MALA INFORMAZIONE
Eppure la campagna anti sala parto, promossa dall’associazione Ovo (Osservatorio sulla violenza ostetrica), è partita in quarta e sembra attecchire. Le promotrici fanno leva sui dati di un’indagine dell’istituto Doxa. Lo studio, commissionato (e pagato) dalle associazioni la Goccia Magica e CiaoLapo, prende in considerazione un panel di appena 424 donne tra quelle che hanno partorito nell’arco degli ultimi 14 anni (che invece sono 7,6 milioni, quasi 18mila volte tanto). Dalle 424 interviste astrae considerazioni generalizzate. Nella protesta «Basta tacere» si parla solo di percentuali: il 21% delle intervistate (quindi, in proiezione, sembrerebbe un milione di donne in 14 anni) dichiara di aver subito violenza ostetrica, il 41% dice di aver subito pratiche lesive della propria dignità, il 54% di aver subito la lesione del perineo «a tradimento», il 6% di donne non ha voluto altri figli dopo l’esperienza in sala parto. Tradotto dalle promotrici: «Ogni anno non sono nati 20mila bambini» a causa del timore delle donne si subire nuove violenze ostetriche in sala parto. 
Ovviamente le percentuali fanno impressione, se non si specifica su che mini campione di donne è stata effettuata l’indagine, ma le neo femministe nei loro volantini si guardano bene dal comunicarlo, facendosi forti solo del fatto che sia un’indagine Doxa.
I medici insorgono e vanno per vie legali. «La metodologia utilizzata per l’indagine ne disvela l’inconsistenza e inattendibilità» scrive il presidente Elsa Viora di Aogoi, l’associazione Ostetrici ginecologici ospedalieri italiani, sostenendo una battaglia comune assieme alla Sigo, la società italiana di ginecologia e ostetricia, presieduta da Antonio Chiantera. «La diffusione di notizie sulla presunta violenza ostetrica, alcune non rispondenti al vero, altre deformate e altre tendenziose – scrivono i medici – è un atto che turba la tranquillità pubblica, ingenera allarme, preoccupazione e indignazione nelle famiglie e nelle donne prossime al parto, con conseguente discredito dei medici, delle ostetriche e del sistema sanitario nazionale». 
IL CONTRO SONDAGGIO
Alla campagna diffamante e alle «distorsioni strumentalizzate» della realtà, i medici rispondono con un’altra indagine. Stavolta non effettuata su poco più di 400 donne ma su un campione di 13.671 neo mamme, con dati raccolti in 117 punti nascita (49 al Nord, 22 nel centro Italia e 46 al Sud). In base ai risultati, oltre il 90% delle donne considera adeguata l’informazione sul parto, il controllo del dolore, l’assistenza ricevuta durante travaglio e ricovero. 
Indagini a parte, ovviamente dei problemi in sala parto in qualche caso ci sono ma in quelle circostanze è meglio che la donna che voglia rivendicare i propri diritti lo faccia tramite uno staff di avvocati e non tramite associazioni che puntano a deospedalizzare il parto per ragioni politiche. 
LE NOSTALGICHE DEL ’68
Ma chi sono le promotrici delle campagne da nostalgiche Sessantottine? Sono le seguaci dei movimenti femministi europei. Tra di loro ci sono personaggi noti agli ambienti politici come Elena Skoko, artista promotrice del «parto cantato» e lobbista ufficiale a Montecitorio (i lobbisti sono i cosiddetti ex sottobraccisti, che un tempo entravano alla Camera sottobraccio ai deputati, e ora hanno libero accesso a palazzo). Ci sono esperte di pratiche sciamaniche per il recupero dell’anima, ci sono ostetriche seguaci di Osho che vedono il male assoluto in un’epidurale. E va tutto bene finché si tratta di libera scelta e non di indottrinamento anti-sistema a chi frequenta le associazioni e i forum on line. 
È sacrosanto dire che la violenza ostetrica sia «un grave problema di salute pubblica globale che mette a rischio il benessere e la salute bio-psico-sociale della madre e del bambino», come afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2014, ma farne una campagna propagandistica va a svantaggio di chi invece ha realmente bisogno di denunciare un abuso verbale o corporeo. E anziché affermare un diritto, rischia di politicizzarlo e svuotarlo di significato.