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 2020  gennaio 06 Lunedì calendario

Intervista a Domenico De Masi

«Non è vero che ci sono sempre più giovani ubriachi o drogati al volante. Gli incidenti stradali delle ultime settimane, da quello a Roma in cui hanno perso la vita le due sedicenni a questo dell’altra notte a Bolzano con sei vittime, rappresentano solo degli episodi. Ma noi non dobbiamo soffermarci sui picchi, dobbiamo guardare a lungo termine».
Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del lavoro presso l’Università «La Sapienza» di Roma, punta ad un’analisi «più ampia che non tenga conto delle persone singole e del caso». 
Eppure, secondo il report annuale di polizia stradale e carabinieri, negli incidenti stradali del 2019 si registrano 11 vittime in meno del 2018 (178 contro 189) ma aumenta dello 0,5% il numero di chi è risultato positivo all’alcol test (11.063 persone, cioè il 5,7% contro il 5,2% dell’anno prima). Non legge questi dati come un trend verso una vita spericolata?
«No, perché la crescita delle persone positive al test alcolemico è solo una circostanza casuale che non identifica una realtà assoluta. Compito di noi sociologi è interpretare gli eventi nella loro complessità. L’Italia non è la bolgia infernale che si vuole dipingere. Altrimenti si rischia di fare il gioco di Matteo Salvini che ha esasperato gli animi sul fronte della sicurezza. Non è che se in tre giorni si verificano tre rapine o tre suicidi significa che siamo sommersi da un’ondata di rapinatori o aspiranti suicidi. Lo stesso vale per gli incidenti stradali».
Ma, al di là delle dinamiche da verificare, sia nel caso di Roma sia in quello di Bolzano, gli automobilisti avevano un tasso alcolemico quasi tre volte e quasi quattro superiore al consentito.
«A parte il fatto che si tratta di due picchi, vorrei sfatare il mito dell’alcol test. Chiunque di noi, uscito dal ristorante dopo aver bevuto due bicchieri di vino, rischia di risultare positivo al controllo. Siamo seri, nel passato gli automobilisti non erano mica più santi di oggi. Anche quarant’anni fa si beveva qualche bicchiere, solo che non esistevano strumenti tecnologici di verifica come quelli di oggi. E anche la storia del consumo di sostanze stupefacenti è un’esagerazione perché riguarda un numero limitato di persone».
Nessun allarme quindi per i morti sulle strade?
«No, anche perché quello che stiamo vivendo è il miglior mondo possibile. Se paragoniamo il primo ventennio del nostro secolo a quello scorso è evidente che 100 anni fa si moriva molto più di oggi. Nella guerra del 1915-1918 persero la vita 670 mila giovani. Inoltre, l’età media era molto più bassa di oggi, e anche le condizioni di vita erano assai peggiori, con il 70% di analfabetismo e l’assenza di diritti per le donne. Attualmente la vita media per gli uomini è 80 anni e per le donne 85. Nel nostro Paese ci sono 850 mila vedovi e 3 milioni e mezzo di vedove».
Come interpreta, quindi, l’attenzione alle giovani vite spezzate negli incidenti stradali?
«C’è la tendenza a soffermarsi sempre sugli aspetti negativi».