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 2020  gennaio 06 Lunedì calendario

Caro Proust, hai torto

Sulla Lettura di Marcel Proust venne pubblicato nel 1905 (edizione italiana a cura di Matteo Noja, La vita felice): era la prefazione della sua traduzione daSesamo e i gigli di Ruskin; un momento molto importante nella fase che condusse da I piaceri eigiorni e da Jean Santeuil al Contre Sainte-Beuve fino allaRecherche.
Siccome Proust non sapeva bene l’inglese, lo tradusse con il concorso continuo e affettuoso della madre e di Marie Nordlinger: una specie di sacra benedizione familiare che mi piace moltissimo.
Il saggio Sulla lettura, sebbene fosse relativamente giovanile, contiene molte cose, che, per Proust, avevano una grande importanza; e l’hanno per noi, che viviamo appesi alle pagine di Proust come pipistrelli di una casa in campagna. Quante cose! Quante suggestioni! Quanti ricordi! In primo luogo dobbiamo considerare l’amore per gli oggetti: i piatti dipinti alle pareti, il calendario dal quale era stato appena staccato un foglietto, la pendola e il fuoco che parlavano senza esigere risposta, e non pretendevano di possedere un senso qualsiasi.
Il giovane Proust si installava su una sedia, vicino al focherello di legno di cui il mattiniero zio giardiniere avrebbe detto: «Non fa male! Sopportiamo benissimo un po’ di fuoco; alle sei, c’era un bel fresco nell’orto. E dire che tra otto giorni è già Pasqua!» Tra poco il giovane allievo di Ruskin avrebbe cominciato e concluso la sua lettura. Sentiva il rumore della pompa, da cui stava per scorrere l’acqua; vedeva il piccolo giardino con la sua aiuola di viole del pensiero, le fondamenta di maiolica; le aiuole anticipavano le vetrate della chiesa, che talvolta si scorgevano tra i tetti del villaggio. La cuoca veniva ad apparecchiare la tavola, e interrompeva la lettura di Proust, di chissà quale libro! – che fra poco sarebbe ricominciata senza limiti.
Egli anticipava un grazioso scorcio di Venezia, che aveva ammirato da poco; mentre il suo io – ma possedeva davvero un io? – si esaltava, sentendosi immerso in quel mondo immenso e indistinguibile, che è il cosiddetto non-io, al quale, per tanti anni, avrebbe concesso la sua vita, e le sue innumerevoli pagine, che avrebbero conosciuto un limite solo nella sua morte improvvisa.
Su un punto non concordo con Proust. «Non credo che la lettura abbia nella nostra vita spirituale quel ruolo preponderante che Ruskin sembra attribuirle», dice Proust; e ripete: «La lettura non è che il più nobile degli svaghi». Con Ruskin e contro Proust vorrei difendere la lettura. Se penso alla mia vita e ai miei quasi novant’anni, non posso che esaltare la lettura. Non so se ho veramente vissuto oppure se la mia vita è stata modesta, mediocre, noiosa, malgrado alcuni episodi che ancora mi esaltano. La Recherche, questo libro senza principio e senza fine, o con un principio e una fine indefinibile, nasce dalla conquista di un numero infinito di letture, di quadri, di musiche, e persone e paesaggi e personaggi. Come diceva Platone, e il Baron Corvo, in un momento di genio ripeteva: «La Recherche è “il Desiderio e la Ricerca del Tutto”». Tutto viene desiderato: tutto viene conquistato, ora lentamente, ora con un balzo: tutto viene perduto e ripreso, e perduto e ritrovato ancora una volta. Ci sono ascese, discese – il suono ferruginoso e fresco della campanella, che annunciava che finalmente Swann era partito, e che la mamma avrebbe salito le scale – e quella campanella suonava per Proust bambino e adulto, e quasi moribondo, all’inizio del 1922. I momenti continuavano a succedersi, uno dopo l’altro: il Tempo si ritirava lentamente dal corpo, e i ricordi – così indifferenti, così pallidi – venivano cancellati, come Albertine, l’amatissima Albertine, che dormiva profondissimamente, e non sapeva di essere già morta.
Tra il principio e la fine, la Recherche ci dice esattamente il contrario: essa non nasce soltanto da qualche pagina di Ruskin, ma da un numero infinito di pensieri, di paesaggi, di persone, di personaggi, di letture, di quadri, di pittori, di musiche, di casi, d’ironie, di disastri, di malattie, e di morti terribili, tra le quali è compresa quella di Proust sul suo letto definitivo.
Credo di avere trascorso tutta la mia esistenza seduto su una poltrona, che non ho mai abbandonato. Questa poltrona è stata spostata: qualcuno l’ha collocata a Torino, qualcuno in Liguria, qualcuno a Castiglione della Pescaia, qualcuno a Roma. Ma, in realtà, nessuno ha mai spostato questa poltrona: ha sempre occupato lo stesso luogo; perché era inamovibile – più inamovibile dei quadri alla Galleria Borghese, o agli Uffizi, o al Palazzo Ducale, o a San Giorgio degli Schiavoni. La poltrona era immobile: perché, su di essa, non ho mai smesso di leggere, leggere, leggere; ogni libro che leggevo era una forma dell’infinito, che inseguivo, e inseguivo, e fallivo continuamente nell’inseguire.
Nell’introduzione alla traduzione di Sesamo e i Gigli di Ruskin, Proust dice una bellissima sciocchezza, o una quasi sciocchezza. Dunque la lettura è limitata? Comincia e finisce? C’è, e poi smette di essere? Non possiede dunque una vera vita spirituale? Non posso essere d’accordo, perché sono qui, sempre su questa poltrona, che nessuno oserebbe spostare, a costo di affrontare il mio giusto furore. Sono gremito di libri, lo studio nel quale sono seduto, è pieno di libri; i corridoi sono pieni di libri; la camera di mio figlio è piena di libri; la soffitta, la cantina, la sottocantina, la soprasoffitta, le scale, le sottoscale, sono colme di libri; e poi ci sono alcune altre migliaia di libri, che ho disposto, là, lontano, in una casa al mare. Alcuni libri sono stati purtroppo prestati, e mi fanno soffrire, come se mi avessero tagliato un braccio. Alcuni stanno ancora nascosti – tutta la Storia naturale di Buffon – in profondissime cassapanche, proprio accanto a una gabbia piena di uccelli colorati e starnazzanti. Ho la gioiosa impressione che i libri aumenteranno e continueranno ad aumentare.
Ho inventato collane di classici greci, latini, francesi, tedeschi, imponendole a lettori benevoli, per essere certo che i libri cresceranno col tempo. Penso già ai miei eredi: in ogni caso, chiusi in casse, non saranno deposti, come quelli di Giovanni Macchia e di Mario Praz e di Emilio Cecchi, nella Biblioteca nazionale di Roma, dove abitano soltanto i fantasmi dei libri morti.
Sono lieto di continuare a leggere. La lettura e i libri sono l’unica cosa illimitata del mondo – molto più degli alberi, e di quella parte del Mar Tirreno, che lambisce dolcemente la mia casa. Leggerò, leggerò – chissà cosa, persino il Dizionario teologico del Kittel, e decine di edizioni dell’Antico Testamento e dei Vangeli, e tutto Voltaire, e tutto Sainte-Beuve, e tutto Henry James, e tutto Hawthorne, e tutto Melville, e le chiose spesso indecifrabili di Alessandro Manzoni, e lo Zibaldone. Bisogna che non muoia troppo presto.