la Repubblica, 6 gennaio 2020
Soleimani, il martire senza frontiere
Il lungo funerale itinerante di Qassem Soleimani, tra Iraq e Iran, “parla”. Come spesso accade in simili frangenti, anche la celebrazione che onora l’artefice della proiezione politica e militare iraniana nell’arco sciita che si tende da Teheran a Beirut, passando per Bagdad e Damasco, si carica di un evidente significato politico: che ruota attorno al tema del “martirio” e dello spazio georeligioso sciita.
Già in vita il comandante della brigata al Quds era considerato un “martire vivente”: ora viene celebrato come shahid a tutti gli effetti. “L’eroe nazionale” Soleimani si ricongiunge così, anche idealmente, a quella generazione del fronte, forgiata durante il conflitto Iraq-Iran degli anni ‘80, alla quale è intimamente appartenuto e convinta che il “martirio” fosse un dovere nella causa della difesa della Rivoluzione islamica.
Soleimani, che pure non è mai stato un martiropata, può essere oggi eretto, dalla Repubblica Islamica, a simbolo delle ragioni per cui essa è impegnata sul fronte esterno.
Impegno contestato da quella parte della società iraniana che, in un Paese segnato dall’embargo americano, preferirebbe che le scarse risorse economiche fossero destinate all’economia piuttosto che all’impegno militare all’estero. Soleimani, più che un teorico dell’esportazione della Rivoluzione islamica in versione sciita, era un convinto difensore degli interessi nazionali iraniani.
Lucido, e cinico, realista politico perseguiva il disegno di allargare lo spazio d’influenza della Repubblica Islamica, oltre che quello di difendere, con ogni mezzo, la costruzione statuale modellata da Khomeini. Aspetti che riteneva intimamente legati. La sua drammatica morte a Bagdad offre ora al regime iraniano l’occasione di mostrare come il fronte esterno non sia che una variante del fronte interno; come il destino della Repubblica Islamica si giochi a Bagdad, come a Damasco e Beirut. In questa concezione della difesa avanzata, che mira a creare una cintura nera e gialla capace di difendere “l’islamismo in un paese solo”, l’Iraq è un tassello essenziale.
Da qui il via libera al funerale itinerante, simbolo di un transnazionale e unitario spazio georeligioso, prima ancora che geopolitico, dove la fede sciita costituisce il vero cemento. Così il pellegrinaggio funebre di Soleimani, e insieme a quello del leader del gruppo sciita iracheno Hashd al-Shaabi, anch’egli ucciso nell’attacco americano, intende mostrare al mondo che lo spazio sciita è unico; che per Teheran, le città sante irachene di Kerbala, luogo del martirio fondativo di Al-Husayn, terzo imam dello sciismo e di Najaf, cuore della tradizionale teologia alide che Khomeini ha sfidato nel suo esilio opponendosi al rivale Al-Sistani, sono parte integrante di un mondo che nessuna frontiera può dividere.
Uno dei motivi che, insieme al nucleare, ha spinto i falchi dell’amministrazione Bush a dare via libera al raid che ha ucciso Soleimani. Un rito che, nella sua parte iraniana, prima della sepoltura di Soleimani nella natale Kerman, tocca Ahvaz, nel Khuzestan dove il “martire” ha combattuto nella guerra con l’Iraq di Saddam; Mashhad, la città dei martiri; Bagdad, la capitale politica dove la Guida Khamenei invoca vendetta contro l’America tornata “Orchessa del mondo”; e, Qom, il polo religioso. Con una saldatura tra dimensione politica e religiosa che celebra anche i caratteri dello sciismo rivoluzionario.