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 2020  gennaio 06 Lunedì calendario

Nel Libano di Hezbollah. Reportage

BEIRUT Nella vita di tutti i giorni Ali Fadouk, 28 anni, fa l’interior designer. Oltre alla laurea in architettura ha due master e insegna in una delle università private di Beirut: ieri ha lasciato gli abiti professionali e si è stretto intorno alla testa la fascia gialla di Hezbollah. “Morte all’America” si legge sulla sua fronte. Nessuna contraddizione, giura lui, con l’inglese dall’accento americano che ha mutuato dalle serie tv: «Sono qui per mandare un messaggio al mondo. Gli Stati Uniti ci hanno aggredito: dobbiamo difenderci».
Per capire cosa ci sia dentro la testa di Ali e di quella parte – consistente – di Libano che si riconosce in Hezbollah bisogna arrivare a Dahie, periferia Sud di Beirut, feudo del movimento sciita, ieri mobilitato per la veglia funebre per Qassem Soleimani e Abu Mahdi al Muhandis. E scoprire che molte fra le migliaia di persone radunate qui hanno lo stesso messaggio da dare: espresso con calma, come fa Ali, ma più spesso con rabbia o con una malcelata superiorità. È il caso di Hussein, che indossa una maglietta con il profilo del generale ucciso: rimane appartato dalla massa – rigidamente divisa per sesso – per non separarsi dalla fidanzata Alia. «Soleimani era il nostro eroe: ci ha salvato dall’Isis. Ci ha difeso: sono cose che voi non potete capire ».
Ciò che è facile capire è quello che la folla aspetta: la musica militare, le bandiere, la rigida organizzazione tipica dei rally di Hezbollah. Tutto si ferma quando sullo schermo inizia a parlare Hassan Nasrallah, 59 anni, il leader dell’organizzazione, che non appare più dal vivo dal 2006, quando proprio Soleimani e l’allora comandante militare di Hezbollah Imad Mughnye (ucciso in un raid in Siria nel 2008) lo salvarono da un attacco israeliano non lontano da qui. «Cercheremo vendetta nella nostra nazione e nella regione. Quando le bare dei soldati americani inizieranno ad arrivare negli Stati Uniti, Trump e la sua amministrazione capiranno di aver perso», dice.
È un discorso durissimo: più di un’ora senza sosta, ma con due fondamentali distinguo rispetto al passato. La precisazione della responsabilità militare degli Stati Uniti con l’ordine di non coinvolgere i civili nella vendetta. E il ruolo marginale rispetto al solito giocato da Israele: l’arcinemico resta sullo sfondo, benché considerato responsabile in quanto alleato degli Usa, quasi a dire che la battaglia questa volta non si svolgerà oltre il Litani (il fiume del sud del Libano), ma altrove.
Non è un caso questa distinzione: come nulla lo è quando si parla di Hezbollah. Per quanto i suoi si affannino a negarlo, in Libano il movimento è in discussione come mai lo è stato in passato. Le migliaia di persone che da quasi tre mesi sono in piazza nel centro di Beirut per chiedere cambiamento lo vedono complice della corruzione che ha portato il Paese alla bancarotta: starebbero con il gruppo nel caso di una nuova guerra?
Quando gli si pone la domanda Anis al Naqqash fa un sorriso docile: uno di quelli che non ti aspetti da un uomo che nel 1975 faceva parte del commando guidato dal killer venezuelano Carlos lo Sciacallo che prese d’assalto la sede dell’Opec a Vienna. E che nel 1990 venne condannato in Francia per aver tentato di uccidere l’ex premier iraniano Shapour Bakhtiar. Condannato all’ergastolo, se è libero oggi lo deve solo a uno scambio di ostaggi voluto nel 1990 dal presidente francese François Mitterrand: «Siamo più forti che mai – spiega – molti pensavano che la Siria ci avrebbe indebolito: non è stato così. Hezbollah è tornato a casa con più esperienza e i suoi combattenti hanno imparato ad usare tattiche da esercito, non solo da milizia. Abbiamo migliorato i nostri armamenti, siamo in grado di mettere in ginocchio Israele e di resistere almeno a un anno di guerra». Naqqash è uno degli anelli di congiunzione fra Hezbollah e la Repubblica islamica: libanese sposato con un’iraniana, cristiano convertito allo sciismo, vive fra il Libano e l’Iran, gli unici Paesi dove può restare libero. Il fatto che considerasse sia Mughnye che Soleimani amici personali dice molto di lui. «Non c’è nessun bisogno di fare una guerra classica. Ma questo omicidio sarà vendicato. E non solo dagli iraniani: Soleimani non apparteneva all’Ira, ma anche al Libano, alla Siria, allo Yemen. Risponderemo tutti». Anche se questo significherà sangue e distruzione? «È impossibile che non ci sia vendetta», dice mentre sorseggia una cioccolata calda.
Nessun cedimento apparente: come per Hussein, come per Ali. Come per Nasrallah che dice: «Il due gennaio ha segnato uno spartiacque per il Medio Oriente e per il mondo: c’era un prima e ci sarà un dopo». A Dahie quando il collegamento si chiude la gente sciama via: quanti di loro coltivano dubbi? Quanti sono pronti a fermare le loro vite in nome della vendetta? Un interrogativo a cui è impossibile rispondere. L’unico che può salvare il Libano da unnuovo abisso.