Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  gennaio 06 Lunedì calendario

Intervista a John Limbert, ostaggio del ’79 a Teheran

«Lo sto dicendo anche in tv, sperando che Donald Trump mi ascolti. Non voglio avere niente a che fare con una sua eventuale decisione di bombardare l’Iran. Se pensa di farlo in mio nome sta perdendo tempo». John Limbert, 77 anni, è furibondo. Ex ambasciatore, ex vice segretario di Stato, a lungo professore di Affari Internazionali e autore di Negotiating with Iran: Wrestling the Ghosts of History, nel 1979 fu uno dei diplomatici americani trattenuti 444 giorni nell’ambasciata di Teheran. Il più celebre dei 52 ex ostaggi in nome dei quali, ora, il Presidente degli Stati Uniti minaccia di bombardare altrettanti siti iraniani. Limbert, che parla perfettamente persiano, è colui che venne mostrato in tv per dire agli iraniani quanto fossero trattati bene. Così coraggioso da mettere in imbarazzo la Guida delle Preghiere del venerdì — oggi Guida suprema Ali Khamenei — denunciando lo stato di ostaggi con una formula tradizionale: «Siete un popolo ospitale. A volte amate i vostri ospiti un po’ troppo e non li lasciate andare...».
Trump minaccia l’Iran evocando la crisi di quarant’anni fa. Ha senso?
«Quegli eventi ancora influenzano, perseguitano, la relazione fra i due Paesi. Da entrambe i lati c’è chi guarda l’altro attraverso il prisma di quei tempi. Io no. Da quando ci hanno liberati, ho sempre detto che la Repubblica Islamica esiste e, ci piaccia o meno, dobbiamo dialogarci. La tragica esperienza di ostaggio mi ha fatto apprezzare particolarmente la mia professione: la diplomazia».
Ha raccontato più volte quanto fosse difficile quel dialogo...
«Durante la nostra prigionia le relazioni erano difficili. Ma apprezzo la diplomazia proprio perché è un mestiere che ti insegna a risolvere problemi e differenze comunicando. Cercando un terreno comune, anche sottilissimo. È vero: all’epoca fu frustrante. Ci stordivano di slogan. Non ascoltavano, impegnati solo a urlare. Era una situazione orwelliana. Ciascuno di noi trovò la sua forma di sopravvivenza. La mia fu cercare di entrare nelle loro teste e mostrare loro che ci stavano facendo qualcosa di orrendo, vergognoso per un popolo civile.
Non so se riuscii, ma il mio messaggio a Khamenei fu che stavano violando i principi della loro stessa cultura».
La via diplomatica non è quella che sta seguendo quest’amministrazione...
«Mi sgomenta che non abbiano un piano. Mi sembra che nessuno abbia previsto le conseguenze. Non entro nello specifico dell’uccisione di Soleimani, ma ho visto troppe volte cosa succede quando si prendono decisioni senza valutazioni adeguate in regioni come quella. In pratica, da quando gli Stati Uniti sono usciti dall’accordo sul nucleare, Trump ha chiesto all’Iran una resa unilaterale. Non funziona così. Nei negoziati ciascuno cede qualcosa».
Cosa passa nella mente degli iraniani in questo momento?
«Non sono mai più tornato in quel Paese. Non voglio fare speculazioni. Ma Trump a noi americani sembra spesso ipocrita, è probabile sia visto così anche fuori. La mia impressione è che di Teheran non gli importi granché. Non quanto ad alcuni membri della sua amministrazione. O a Israele che preferisce un Iran palesemente nemico».
Perché una decisioni così grave, dunque?
«Vuol andare nella direzione opposta a quella dei predecessori.
Cancellare l’accordo sul nucleare è stato un errore, perché dopo 40 anni non siamo certo diventati amici degli iraniani. Ma avevamo stabilito un canale di comunicazione. La direzione intrapresa ora potrebbe provocare un nuovo disastro in Medio Oriente. E in quella regione di disastri ne abbiamo visti già troppi».