Corriere della Sera, 6 gennaio 2020
Le nuove forze in campo in Libia
Le ostilità già in atto in Libia sembrano prendere ogni giorno di più la direzione che porta a un’autentica guerra combattuta sul terreno. C’è da sperare in imprevisti capaci di deviare il corso degli eventi da questa traiettoria, ma si rafforza l’impressione che si profili una fase di scontri più ampi e costanti tra le milizie del generale Khalifa Haftar e quelle raccolte intorno al presidente Fayez al Serraj.
Oltre all’ attacco dal cielo che ieri ha ucciso come formiche allievi dell’accademia militare di Tripoli, altri segni recenti indicano un cambiamento nel tentativo di assedio alla capitale cominciato da Haftar il 4 aprile scorso. Secondo fonti in passato attendibili, è diventato più frequente che tra quanti cadono sotto i colpi di incursori provenienti da postazioni del generale ci siano casi di morte dovuti a un unico proiettile. Per quanto maneggino armi almeno dal 2011, quando il regime di Muhammar el Gheddafi crollò a causa di rivolte e un’offensiva aerea della Nato, tanti miliziani libici sparano numerose pallottole per volta. Le loro vittime sono uccise da più proiettili. La precisione selettiva dei tiri su alcune delle ultime viene attribuita ai mercenari russi in azione con gli uomini di Haftar.
Fonti statunitensi sostengono che sarebbero migliaia, i cosiddetti «contractor» agli ordini di Mosca. Altre fonti ritengono che in realtà siano tra i 700 e il migliaio. Pochi sono tecnici che hanno riparato aerei del generale. Altri sparano e ricorrono a tattiche più sofisticate di quelle dei guerriglieri locali.
La contrapposizione intorno a Tripoli è a prima vista tra Haftar – che la insidia con un «Esercito nazionale libico» non nazionale, sebbene ormai più presente fuori dalla Cirenaica di origine – e Al Serraj, presiedente del Consiglio provvisorio di un «Governo di accordo nazionale» la cui denominazione indica solo un’ambizione. Ma il generale deve tener conto degli Stati che lo sostengono: innanzitutto Russia, Egitto, Giordania, Emirati Arabi Uniti e Francia. Serraj ha dietro di sé l’appoggio sempre più ingombrante della Turchia, che con gli aiuti militari ridimensiona il valore del sostegno politico dell’Italia, e il Qatar.
Russia e Turchia si contendevano da tempo le capacità di influenza italiana sulla Libia in un duello a distanza per mezzo di soldi, armi, tecnologie. I mesi scorsi hanno segnato un’accelerazione.
Haftar ha ricevuto droni di qualità avanzate, prodotti in Cina e forniti al generale dagli Emirati. Con quelli ha esteso il suo raggio di azione. La sua marcia su Tripoli tuttavia ha subito battute d’arresto.
La Turchia di Recep Tayyp Erdogan ha inviato in aiuto ad al Serraj droni con capacità di volo minori, però più agili. Nella coalizione di Tripoli non tutti volevano legarsi troppo al presidente di Ankara, fornitore degli aerei senza pilota a bordo costruiti da un’azienda del genero e capo di Stato degli eredi dell’Impero Ottomano nel quale rientrava la Libia prima di essere colonia italiana.
I mercenari russi sono aumentati. E Erdogan ha ridotto gli aiuti a Serraj. Fino a quando i libici che rifiutavano di negoziare ad Ankara due accordi hanno cambiato idea pur di non soccombere all’assedio di Haftar. Ne sono derivati due testi. A Tripoli li presentano come «memorandum». Se li chiamassero trattati internazionali non potrebbero ricevere le approvazioni necessarie da un Parlamento nazionale (come ad Ankara è stato fatto).
Il primo accordo tra Turchia e Libia è di cooperazione militare. Il secondo è su delimitazione marittima, piattaforme continentali, zona economica esclusiva. Traccia linee che lambiscono Creta e Dodecanneso. Ne derivano ostacoli giuridicamente discutibili e politicamente seri per estrazioni di energia e pesca da parte di Italia e Grecia. La contesa è più vasta di quella Haftar-Serraj.