il Fatto Quotidiano, 6 gennaio 2020
Storia della Lazio (in tre libri)
Era un pallanuotista della Lazio Ivo Bitetti – figlio di Olindo, uno dei fondatori – che riconobbe Benito Mussolini, bloccato dai partigiani su un camion dei tedeschi il 27 aprile del 1945. Era un nuotatore della Lazio Fulvio Jacchia, comandante delle brigate “Garibaldi” della zona Nord di Roma. Silvio Piola, centravanti della Lazio anni 30 (tuttora il più prolifico della Serie A: 274 gol) e della fascistissima nazionale che vinse i Mondiali del ’38, si ritrovò isolato vicino ad Anzio nel gennaio ’44, si unì a un gruppo di patrioti e per qualche giorno usò l’abilità di cacciatore per sparare ai tedeschi. Nello stesso anno i custodi del Circolo Canottieri Lazio, ancora attivo sull’argine del Lungotevere Flaminio, diedero rifugio a ebrei romani che rischiavano la deportazione.
Sono alcune delle storie raccontate in “Casacche divise – 1940-1945 – Gli atleti della Lazio nella Seconda Guerra Mondiale” (Eraclea) da Fabio Bellisario e Fabrizio Munno, animatori di LazioWiki, l’incredibile enciclopedia biancoceleste. Il libro sarà presentato a Roma durante le celebrazioni dei 120 anni della società, fondata il 9 gennaio 1900 ai tempi dei “fiumaroli”, barcaioli e nuotatori sul Tevere, tra un barcone e una panchina di piazza della Libertà, sulla sponda destra nel rione Prati, oggi elegante e borghese ma allora di recente edificazione, strappato al fiume che da millenni esondava proprio lì, a due passi da Castel Sant’Angelo e dal Vaticano.
I gol di Immobile e Caicedo, nove vittorie consecutive e il terzo posto provvisorio in campionato, la Coppa Italia e la Supercoppa 2019 sia pure sporcata dai milioni sauditi sono le ultime immagini della sezione Calcio guidata da Claudio Lotito, da decenni ben più potente della Lazio Generale, la polisportiva che conta 75 discipline: dal nuoto, la più longeva e ricca di medaglie, al rugby, alla scherma, all’escursionismo e all’atletica; non sempre brillantissime e tuttavia rappresentanti, oggi come 50, 100 e 120 anni fa, della libertà di fare sport a Roma. Diecimila tra atleti, tecnici e dirigenti, dieci ori olimpici e 500 titoli nazionali. Un mito che resiste in città e in un’editoria un po’ di nicchia, spesso contrapposto allo stereotipo che identifica l’intera tifoseria laziale con l’estremismo di destra.
Tra il 1940 e il ’45 le “Casacche” biancocelesti erano appunto “divise”. Il libro racconta, con rispetto, anche i laziali schierati dall’altra parte. Come Francesco Marrajeni, calciatore e dirigente, alto funzionario della Repubblica di Salò. Come il generale Giorgio Vaccaro, decorato nella Grande Guerra, quindi gerarca e presidente della Federazione giuoco calcio fascista ma, soprattutto, vicepresidente della Lazio che, nel 1927, salvò dalla fusione con le altre società capitoline da cui nacque l’As Roma, voluta dal regime che aveva deciso di puntare sul calcio. Proprio Vaccaro, nel ’44, riuscì a evitare la perquisizione dei tedeschi che cercavano oro, celando in una scatola di scarpe la Coppa Rimet vinta dagli azzurri nel ’38 ai Mondiali di Francia. Lo raccontò a Mario Pennacchia, giornalista e autore di un’indimenticabile “Storia della Lazio”, edita nel 1969 e riedita nel 1994 come “Lazio patria nostra”.
In libreria oggi c’è “Ss Lazio – La Storia”, scritto da Fabio Argentini, edito da Goal Book con la società di Lotito. Più impegnativo è il monumentale “Società podistica Lazio 1900-1926” di Marco Impiglia, giornalista e raffinato storico dello sport, che pure esce in questi giorni, stampato in proprio dalla Ss Lazio Generale, cioè dalla polisportiva, in appena 120 copie. Su base documentale, Impiglia colloca la scelta dei colori biancocelesti e dell’aquila simbolo di Roma tra il 1904 e il 1906, durante la presidenza di Fortunato Ballerini che, oltre ad aprire alle donne, diede le prime utili relazioni politiche alla società fondata dai quindici ragazzi, per lo più di estrazione popolare e della borghesia minuta. E contesta il richiamo dei colori alla Grecia delle Olimpiadi, che a Pennacchia fu raccontato dallo scomparso Olindo Bitetti. Secondo Impiglia il biancoceleste arrivò con il calcio e non risalirebbe al fondatore Luigi Bigiarelli, il leader dei ragazzi sulla panchina che mai volle essere presidente, podista e nuotatore, reduce della sanguinosa sconfitta di Adua (1896) e quasi subito emigrato in Belgio. Lì morì a soli 33 anni e LazioWiki ha scovato la sua tomba.
Impiglia racconta l’alba dello sport a Roma, la ginnastica e il “cittadino soldato”, gli anni eroici dei pionieri della Lazio e della prima sede in via Valadier, vicino a piazza della Libertà, dove un giovanotto scarso con i piedi, Bruto Seghettini, portò nel gennaio 1901, in una città innevata, il pallone di cuoio del Racing Club di Parigi. Il primo derby romano del 1904 tra Lazio e Virtus, disputato nella Piazza d’Armi tra Prati e l’attuale quartiere Della Vittoria: 3-0. Le partite in cui i laziali venivano strapazzati da una squadra di seminaristi scozzesi. Vennero poi i campionati del Centrosud che la Lazio vinse tre volte per poi farsi schiantare in finale dagli squadroni del Nord. Fino al regime e al fascio littorio sulle maglie. L’aquila tornerà nel 1940, non più a riposo ma con le ali rigidamente spiegate della simbologia imperiale, ma questa è un’altra storia.
Dopo la guerra tutto cambiò. Il calcio prese il sopravvento, arrivò il professionismo, la Lazio vivacchiò, andò in B, rifondò il mito nel 1974 con lo scudetto di Tommaso Maestrelli – ex prigioniero dei tedeschi in Grecia – e di Giorgio Chinaglia, squadra di teste calde per lo più destrorse. E di destini atroci come quello di Luciano Re Cecconi, ucciso in una gioielleria per uno scherzo o chissà perché. Poi la morte del tifoso Vincenzo Paparelli nel ’79, colpito da un razzo sparato dalla Curva Sud, il totonero, altra serie B, la resurrezione dai “meno 9” che potevano valere la C. Un’altalena mozzafiato fino allo scudetto di Sergio Cragnotti nel 2000, seguito dall’ennesimo rischio di fallimento evitato da Lotito, che nel 2004 ottenne la rateizzazione dal Fisco e da allora paga. Decine di milioni, due terzi del totale, già versati secondo la società. L’Erario col fallimento non avrebbe preso un euro. E l’aquila vola.