Robinson, 4 gennaio 2020
Biografia di Zucchero raccontata da lui stesso
La frase più amara che gli sento pronunciare è che per lungo tempo ha creduto di morire. Non una morte fisica. Se è per questo, è stato un giovane forte e resistente. Ma una morte sottile, di testa, che ti tiene in vita ma che ti fa alzare tutte le mattine con l’ansia di non farcela. È uno Zucchero in libera uscita quello che incontro e che non ha dimenticato l’inflessione dialettale, alla quale si aggrappa come alle radici in un giorno di vento forte. È cordiale, simpatico con quella faccia un po’ vichinga, aperta, energica e concupiscente. Nel linguaggio dei media Zucchero è una rockstar internazionale. Uno dei pochissimi italiani in grado di reggere il confronto con le altre stelle americane e inglesi. Partirà tra un po’ per un lungo tour che toccherà le maggiori città dei vari continenti: dall’Europa agli Stati Uniti, all’Australia per finire con undici concerti a settembre all’Arena di Verona. Porterà le sue canzoni e il nuovo album. La prima tappa Londra, alla 02 Arena, in un’esibizione insieme ad altre star come Tom Jones ed Eric Clapton, i Procol Harum e i Dire Straits, Cat Stevens e Paul Young. Di solito come vivi questi lunghi tour? «Oggi con maggiore tranquillità. Ma in passato ci sono stati momenti duri e complicati». Dovuti a cosa? «Al panico. Al terrore di dover salire sul palco». Ti è accaduto spesso? «Il primo attacco di panico fu all’inizio degli anni Ottanta. Estate. Varazze. Con una band ero stato ingaggiato per cantare in un locale. Il gestore mi dice vai e canta Rock’n roll robot, che era in quel momento il successo di Alberto Camerini. Sto per iniziare, controvoglia. Un caldo infernale. Comincio a sudare freddo. Il cuore che va su di giri. Poso la chitarra e come un automa esco di scena. Un disastro». Non eri ancora famoso. «Sconosciuto ai più». A cosa ti aggrappasti? «A niente, era come galleggiare nel vuoto. Improvvisamente sentivo che qualcosa mi afferrava trascinandomi giù. Ero impotente, smarrito e anche incredulo». Incredulo? «Sì, perché a me? Che cosa ho che non va? Vengo da una terra solida, dura ma aperta. Radici contadine, non c’era permesso di farci delle pippe mentali». Sei di dove? «Di Roncocesi, frazione di Reggio Emilia. Un piccolo mondo che avrebbe potuto descrivere Guareschi: il parroco e la chiesa da un lato, il sindaco e la casa del popolo dall’altro». La tua famiglia da che parte stava? «Era comunista, soprattutto mio zio Enzo, detto Guerra: marxista, leninista, maoista. Autodidatta. Aveva la stanza da letto piena di libri. Non potendo fare pressoché nulla, era seminfermo per colpa di una scheggia di granata vicino al cuore, teorizzava. Sognava il suo mondo migliore. Era diverso dal fratello, cioè da mio padre». Perché, com’era tuo padre? «Terragno, pratico, impulsivo. Ricordo che quando veniva il prete in casa si toccava i maroni. Poi sopraggiunse una malattia, di quelle degenerative ma che allora non si sapeva che cosa fosse. E un giorno si presentò il prete e papà si alzò a fatica dalla poltrona e si fece il segno della croce. Allora mi sembrò strano, un po’ come arrendersi. Poi ho capito che quel gesto era il segno di una redenzione». Parli di fede? «Ho sempre avuto qualche riferimento spirituale. La mia vita e, aggiungo, le mie canzoni sono state un continuo oscillare tra sacro e profano. Il primo strumento che ho suonato è stato l’organo in chiesa. Fu don Tagliatella, lo chiamavamo così, il parroco che veniva spesso a pranzo la domenica e discuteva con lo zio Guerra, a permettermi di suonarlo. Sai quale è stata la prima grande emozione? Quando sono riuscito a suonare A Whiter Shade of Pale, la più bella canzone del secondo Novecento». Un classico, ma con un testo ermetico che parla di vergini e di mugnai. «Ma è bella anche per questo, sembra scritta sotto effetto dell’lsd, con un sottofondo di Bach e un riferimento ai racconti di Canterbury di Chaucer. Pazzesco! Ogni tanto la canto nella versione originale dei Procol Harum». Toglimi una curiosità, come sei arrivato al rhythm and blues? «Per puro caso. Un ragazzo nero di Memphis, che studiava agraria a Bologna, aveva degli amici o dei parenti a Roncocesi. E ogni tanto veniva a trovarli. Ci conoscemmo e poiché sapeva che strimpellavo la chitarra mi fece ascoltare un disco di Otis Redding. Sai quando hai una botta di adrenalina? Ecco, restai folgorato da (Sittin’ on) the Dock of the Bay. Quello fu il primo passo». Al successo non sei arrivato subito. «Quasi dieci anni di gavetta, di porte sbattute in faccia e anche dopo non è stato facile». Hai mai pensato di non farcela? «Più di una volta. Oltretutto, avevo una moglie che non era il massimo dell’incoraggiamento. Due figli, i soldi che non bastavano e la precarietà di un mestiere per il quale ti sembra sempre di stare sul ciglio di un burrone». La popolarità arrivò con Sanremo. «Fino a un certo punto. Partecipai arrivando penultimo. I discografici non erano molto convinti che avrei sfondato. Sì, ho pensato di non farcela e mi sono anche chiesto, in alternativa, di che cosa avrei vissuto». Avevi un piano B? «Dicevo: male che vada farò il veterinario. Mi ero iscritto alla facoltà di Pisa, sostenendo una trentina di esami. Ma poi avevo smesso per gli impegni musicali. Mi sarei occupato di bestie. Perché no?». I tuoi come vedevano le tue imprese di cantante? «Se ne fregavano, soprattutto mio padre. Pensa che quando sono diventato “Zucchero”, per un periodo, visti i dissapori con mia moglie, mi trasferii nella vecchia casa dei miei genitori. Volevo respirare l’aria di famiglia, ripensare alla mia infanzia, rivedere i volti familiari. Mio padre mi svegliava alle quattro del mattino. Alzati Delmo che devi andare nei campi a lavorare. Capisci? Non aveva realizzato nulla del mio successo. E quando gli dissero: hai un figlio musicista famoso, lui rispose non mi piace la sua musica, a me piacciono il valzer e la mazurka. Non ce l’ho fatta a restare e sono andato via nuovamente». Dal punto di vista professionale sei stato ampiamente ripagato. A cosa devi il tuo successo? «Lo devo innanzitutto a me stesso. Poi ci sono gli incontri con le persone giuste, la stima che comincia a circondarti. La gente che ti guarda con un occhio diverso. E poi, nonostante fossi un provinciale, o forse grazie al fatto che lo ero, ho sempre guardato fuori dal nostro Paese. Volevo far parte di una famiglia musicale che capisse il mio sforzo, i miei desideri, i miei sogni». Alludi al confronto con le grandi rockstar? «Sono stato fortunato nell’incontrare artisti che hanno capito e apprezzato la mia lingua musicale: Eric Clapton, Sting, Bono, Joe Cocker e ovviamente Miles Davis». È vero o è una leggenda che sia stato Miles Davis a chiederti di suonare con lui? «Lui sentì Dune mosse, chiese chi fossi e decise che avrebbe fatto volentieri quel pezzo con me. Lo raggiunsi a New York e in una sala di registrazione facemmo il pezzo. Superammo alcune incomprensioni e alla fine disse che gli piaceva la mia voce. Ero stordito. Disse anche che quella musica lo aveva fatto piangere. Non so se esagerava o se era entrato in un mood particolare». Cosa ti colpì di lui? «Era un misto di aggressività e tenerezza. Finimmo la serata in un ristorante. Era nero, vestito di nero, con le lenti nere. Si tolse gli occhiali e vidi due fessure verdi. Erano i suoi occhi. Bellissimi. E aveva acceso il mio buio». Una canzone del tuo nuovo album,"D.O.C”, si intitola “Spirito nel buio”. Parli di feste in paradiso, di gioia nel mondo, del fiume Giordano, di sacro e di profano. Davvero è questo il mondo che stai cercando? «È la spiritualità di cui ti parlavo prima. Si tratta di una conquista difficile. Quella canzone dice anche che mi sento come perduto nella nebbia e che vorrei un mondo in festa. Ma il mondo non è quello che sognavo da bambino. Ci sono i fallimenti privati e quelli collettivi». A quali stai dando la precedenza? «In questo momento mi pare evidente che stiamo andando tutti, chi più chi meno, incontro a una sconfitta epocale. Siamo ancora sospesi, con la paura di non farcela». Prima hai raccontato del tuo primo attacco di panico. Come hai contrastato questo problema? «Intanto vivendolo. Anche drammaticamente. Fu terribile prima di un concerto al Cremlino e un’altra volta quando fui invitato a cantare a Wembley per un tributo a Freddie Mercury. C’erano i Queen, David Bowie, Elton John, George Michael. Stavo malissimo. Sudori freddi. Quando arrivò il mio turno volevo solo andarmene. Dietro il palco la fuga. Davanti ottantamila persone. L’angoscia mi terrorizzava. Ero nella fosse dei leoni. Alla fine l’adrenalina ebbe il sopravvento e cantai alla grande. In seguito le cose si complicarono. All’inizio di un tour per il mondo venni preso dal panico. Decisi di annullare tutti i contratti e partii per Pisa con l’intento di ricoverarmi nell’istituto diretto dal professor Cassano, grande specialista di patologie legate alla depressione». Cosa accadde? «Gli spiegai cosa avevo e che intendevo ricoverarmi nella sua clinica. Nel frattempo gli organizzatori del tour minacciavano penali mostruose da pagare. Non mi importava. Volevo solo stare lontano dalle scene e curarmi. Volevo la mia piccola tana. Ma Cassano fu irremovibile. Mi spiegò che la cosa migliore era affrontare il tour assumendo tuttavia dei farmaci che lui avrebbe dosato. Niente. Insistevo per essere ricoverato. Poi vidi una vecchia in un corridoio che urlava che voleva uscire e mi sono spaventato. Rischiavo di fare la stessa fine. E allora decisi di tornarmene a casa». E alla fine? «Partii per il tour grazie anche all’intuizione di un amico che mi offrì molta grappa. Il professor Cassano ci mise il Prozac. La miscela fu per me risolutiva». E oggi? «Come ti ho detto va molto meglio. Ogni tanto penso a mio nonno. Anche lui, scoprii, aveva avuto attacchi di panico. Non si sapeva, allora, esattamente cosa fossero. La nonna lo faceva sedere, gli sfilava la maglia e gli asciugava il sudore. Poi gli serviva un brodo caldo e lui ricominciava a vivere. Come accade a me: Adelmo Fornaciari in arte Zucchero. Ma io, per i miei ero Delmo, e le mie radici sono ancora lì in quella terra. Mi ricordo quando diventai amico di Pavarotti: i concerti eseguiti insieme in giro per il mondo. Luciano era planetario. Aveva più popolarità di Michael Jackson, ma quando tornava a Modena giocava a carte con gli amici e tagliava i salumi. Essere provinciali e universali. Questo mi ha insegnato. Mi chiedi di oggi. Ho imparato a conoscere il mio male e a contrastarlo. Sono vigile e sereno. Un tempo mi ero fissato che il pubblico venisse ai miei concerti per giudicarmi e criticarmi. E ci stavo male. Ora so che in realtà viene perché ama le mie canzoni, la mia musica. Anche questa, giuro, è stata una conquista».