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 2020  gennaio 04 Sabato calendario

Intervista a José Muñoz, grande fumettista

Il big bang del bianco e nero. Ecco cos’è per José Muñoz, grande artista del fumetto, il ricordo dei suoi primi passi da disegnatore. Quelli vissuti all’ombra di Hugo Pratt e accanto ad Alberto Breccia. Quelli da cui è nato anche Alack Sinner, il detective privato creato insieme allo sceneggiatore Carlos Sampayo di cui ora si può ammirare una nuova, curatissima edizione integrale. I suoi ricordi vengono fuori vivi ed emozionanti, continuamente inframmezzati da pensieri sul senso dell’arte fumettistica. La premessa è questa: incantato dal disegno di Hugo Pratt, José chiede ai genitori di iscriverlo alla Escuela Panamericana de Arte di Buenos Aires, il luogo ormai mitico dove l’artista italiano, non ancora trentenne, insegnava. Siamo alla metà degli anni Cinquanta e sarebbero passati più di dieci anni per vedere Corto Maltese, ma dal 1953 Pratt pubblicava Sgt. Kirk sulle pagine della rivista Misterix. Muñoz arriva dodicenne all’Escuela in un giorno di maggio del 1955, accompagnato dal padre. Un mese dopo Plaza de Mayo sarebbe stata bombardata da aerei dell’aviazione navale nel tentativo di uccidere Perón: muoiono centinaia di civili. Una delle tante tragedie argentine di quel tempo, che ebbe come epilogo il golpe del generale Videla e il dramma dei desaparecidos (tra i tanti anche Héctor G. Oesterheld, sceneggiatore di Kirk). José Muñoz, per lei, giovanissimo artista, tutto stava nel rapporto tra il bianco e il nero, come diceva Pratt nelle sue lezioni? «Sì, tutto. Il bianco e nero era nel fumetto, nel cinema, e anche nel mondo dei pensieri. Forse anche per quella serie di certezze un po’ patetiche ma inevitabili della giovinezza per cui è d’obbligo avere dei pareri netti. Però io più che da Pratt, che nel 1955 lasciava la Escuela, la lezione l’ho avuta da Alberto Breccia, che è stato per anni il mio maestro. Avevano delle filosofie appena differenti: Pratt era per un espressionismo diurno, Breccia per un espressionismo notturno». Cosa dovevano fare il bianco e il nero? Scontrarsi? «Ma no: il bianco e nero un po’ si assomigliano. Giocando con i loro conflitti possiamo trovare un’armonia. C’è una specie di scintillio, di scarica elettrica nel confine che divide la luce dall’ombra». Tutta questa poesia nasceva da necessità editoriali, ovviamente. «Certo. Dagli editori che volevano giustamenten tenere basso il prezzo delle loro pubblicazioni. Il colore era troppo costoso. Quando ero allievo di Breccia, tra i 12 e i 14 anni, lui diceva che il fumetto era come una scacchiera. Un quadrato bianco e un quadrato nero». La stampa, non proprio accuratissima, accentuava quella contrapposizione. «Breccia ne era consapevole. E ci insegnava a disegnare per evitare incidenti quasi inevitabili con la pessima stampa di allora. Bisogna guardare attentamente gli originali del suo Mort Cinder (serie degli anni Sessanta, scritta ancora da Oesterheld, ndr), le gradazioni plastiche che ci sono in ogni macchia di nero. Prendi un suo centimetro quadrato e ci trovi una traccia che sembra presa dai quadri di Pietro Consagra o di Emilio Vedova. Con incroci di energie irrefrenabili all’interno della sua neritudine. Eppure tutto questo sugli albi usciva nero, nero e basta». Lei era bambino, il più giovane fra gli studenti della Escuela. «Sì, e ancora ringrazio Breccia per avere avuto un occhio di riguardo per me. Mi ha accolto nella sua casa quando mio padre non ha più potuto pagare la Escuela. E poi ho avuto la fortuna di andare a fare l’aiutante di Francisco Solano Lopez, quando disegnava L’eternauta. Ecco: questo gruppazzo illuminato, questi talenti hanno lavorato controllandosi l’un l’altro, si sono tollerati, si sono innaffiati l’uno con l’altro per alcuni anni, mica tanti, sei, sette». Alack Sinner è stato negli anni Settanta uno dei personaggi che ha cambiato il volto del fumetto avventuroso. E viveva dello scontro fra il bianco e il nero. «È stato uno strano periodo, quello. Avevo smesso di lavorare con gli inglesi, non avevo più un lavoro. Sono diventato un hippie londinese a tempo pieno, vivevo in una comune e lavavo i piatti. Una bella esperienza, in cui ho rimesso a posto il mio quadro mentale. Poi un amico mi ha fatto conoscere Sampayo, e ci siamo messi a buttare giù idee». La pubblicazione è stata immediata. «Attraverso la Quipos di Marcelo Ravoni (quella di Quino e Altan) siamo riusciti a far vedere il fumetto a Oreste del Buono che lo ha preso immediatamente per Alterlinus. Eravamo contenti. Avevamo colto tutta una serie di flussi che venivano dalla realtà». Nel 1975, nell’Italia della tensione che attendeva il Settantasette, avete dichiarato in anticipo la fine delle speranze. «Ci vuole più tempo, sono necessarie altre disgrazie umane per smetterla con le speranze. E a volte non ci si arriva comunque». Ora arriva questa nuova edizione, in due grandi volumi. «Ci ho lavorato tanto. Dovevo correggere una serie di modifiche, soprattutto all’interno delle nuvolette». Lei non sembra a suo agio nella nuova era dei romanzi a fumetti. «Le riviste ti obbligavano a scadenze continue. Dovevi lavorare tanto per arrivare puntuale. Era una grande fatica, ma anche una spinta a inventare. E poi forse oggi sono stanco di denunciare il male». Cosa potrebbe fare altrimenti? «La risposta ce l’ho, chiara: denunciare la bellezza!».