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 2020  gennaio 04 Sabato calendario

Intervista a Saverio Raimondo

«Avevo solo tredici anni quando ho capito di essere ridicolo. Poi ho scoperto che si trattava di un talento e soprattutto ne ho colto i benefici sociali. Ho scoperto il Woody Allen dei racconti ed è partita l’emulazione. All’epoca forse avrei dovuto emulare il DiCaprio di Titanic ma sarei stato ancora più ridicolo». Saverio Raimondo ha trentacinque anni ma gli è rimasto l’imprinting del bambino che a sei anni faceva gli spettacolini umoristici con le marionette. Dopo anni di CCN, lo show di Comedy Central che però non andrà avanti («una separazione consensuale con l’editore, a condizioni date non era più possibile sperimentare qualcosa di nuovo») ha conquistato Netflix con Il satiro parlante, cinquantatré minuti su un palco a monologare. È in libreria con Io esisto. Babbo Natale vuota il sacco (DeA/Planeta). Sta lavorando «a dieci progetti contemporaneamente, in questo lavoro devi avere dieci idee perché ne atterri una». È uno stand up comedian di successo. Cos’altro serve, oltre a emulare Woody Allen? «Sono stato sempre uno spettatore. Ho letto tanta comicità, visto tanta comicità. Se si è un minimo spugnosi, si assorbe. Mi informo, mi guardo intorno, prendo i mezzi pubblici. La fortuna è stata iniziare a lavorare presto, penso a Braccia rubate all’agricoltura di Serena Dandini, su Rai 3 nel 2003, collaborai ai testi. Entri nella macchina e capisci i suoi aspetti prosaici, burocratici, mediocri. Se da un lato questo ti toglie la magia, dall’altro ti rende pragmatico. In un ambiente così effimero è meglio essere pragmatici che idealisti». Dove cerca la comicità? «Sono convinto che si possa fare comicità su tutto. I famigerati limiti della satira sono fissati solo dall’abilità del comico di far ridere di certe cose e dalla disponibilità da parte del pubblico di riderne. È una trattativa continua, che cambia di contesto in contesto. Cerco la comicità in ogni cosa, negli argomenti più controversi che mi accendono una molla interiore, quelli più sdrucciolevoli. Il sesso, la religione, le dinamiche di potere». Raramente affronta temi politici. «È l’argomento meno controverso. E meno stimolante, almeno rispetto al passato». Quando ha iniziato, dieci anni fa, eravamo in piena era berlusconiana, se ne rideva molto. «E infatti non se ne poteva più, né di Berlusconi né della satira su Berlusconi. All’epoca del Collettivo Satiriasi, io e altri comici vedemmo nella stand up comedy una possibilità espressiva che in Italia mancava. La scena comica stava morendo, da una parte c’era la tv che aveva spremuto fino all’ultima goccia la gloriosa tradizione del cabaret; dall’altra c’era una satira appiattita sui temi politici, solo battute su Berlusconi. S’era creato un tale deserto che quella novità fu enorme. E crebbe nel giro di pochi anni grazie anche a canali dedicati sul web, che cominciarono a sottotitolare i video degli stand up comedian americani. Fino ad allora li conoscevamo solo dalle traduzioni di Daniele Luttazzi». Lei ci mette anche una buona dose di cattiveria. Quando parla di bambini, di handicap... «La cattiveria è qualcosa di normale che tutti dovremmo imparare a esercitare come pensiero critico. Ci aiuta a incanalare le tossine, il marcio. Tutti pensiamo cose indicibili, bisogna capire come dare loro una forma. Magari non trasformarle in azioni ma in qualcosa di divertente. Dire certe cose, tirarle fuori, aiuta a esorcizzarle e, nel dirle, si annullano, vengono assorbite. La cattiveria è sana e utile». Il sesso è una costante nei suoi testi. «Ho avuto un’infanzia serena, ci tengo a dirlo. Anche se molte donne con cui ho avuto delle storie si sono invaghite della persona che vedevano sul palco, non di Saverio Raimondo. A volte mi chiedo: ma esisto al di fuori di quello che faccio?». Quindi rapporti non duraturi. «No, anzi. Con la mia attuale compagna stiamo insieme da dieci anni. Sono un erotomane a tendenza monogamica. Mi piace farlo, ma sempre con la stessa persona». Anche con lei tutto è iniziato da un suo spettacolo? «Esatto. Ha visto un mio video online e mi ha scritto che mi amava. Non l’ho presa sul serio. Invece era vero. Aveva perfino aperto un blog solo per poter stare in contatto con me, per incontrarmi. Poi ci siamo visti, frequentati. E ha chiuso il blog. Forse Beppe Grillo non ha ancora incontrato nessuno, per questo il suo blog è ancora aperto». Sembra non essersi dedicato ad altro che a far ridere. In gioventù è mai stato in discoteca, aveva una comitiva, girava in scooter? «In discoteca non andavo perché sapevo di non essere quello bello che ballava bene. Ho sempre fatto fatica a socializzare, anche oggi sono timido e riservato». Però era “quello simpatico”. «Attenzione: ero “quello divertente”, che è altro da “quello simpatico”. L’essere “quello divertente” è stata, e in parte è ancora oggi, la mia unica chiave di relazione con le persone. Da adolescente sono stato molto solo. Diciamo che ho avuto una vivace vita interiore». Saper ridere di sé aiuta, in certi casi. «È sempre stato inevitabile, per questo ho scelto la stand up comedy, significa lavorare sulla propria persona per trarne comicità. Non riesco a eludermi. Non avendo doti trasformiste, con questa voce e tanti altri aspetti più o meno caratteristici, o lavoravo su me stesso o non ne venivo fuori». Una sorpresa vederla in un luogo istituzionale come Porta a porta. In che modo ci è finito? «È stato Bruno Vespa a telefonarmi. Io mi sono subito preoccupato: oddio, se mi chiama Vespa che cosa è successo? Che cosa ho fatto? Sa, il senso di colpa cattolico... Invece voleva, appunto, propormi di collaborare». Le ha dato una linea? «No. Il bello credo sia proprio questo: penso di funzionare perché sono sbagliato. La persona sbagliata nel posto sbagliato. La soluzione è stata puntare sul programma stesso, non sul politico di turno. La Gioconda cui mettere i baffi non sono gli ospiti ma Porta a porta, il tempio. E io sono l’eretico». Netflix invece è il posto giusto? «Il satiro parlante sulla piattaforma è stato un riconoscimento, una soddisfazione. Ma anche un momento di crisi. E adesso che cosa succede?». Adesso che cosa succede? «Sto lavorando a dieci progetti in parallelo per portarne a casa almeno uno. Tutti destinati a editori diversi. Progetti legati alla serialità, altri show. Mi piacerebbe tornare a parlare con RaiPlay ma anche con Amazon, con Netflix. Resta comunque una linea aperta con Comedy Central che per me rimane un editore di riferimento. Torneremo a ragionare per un nuovo progetto. Il precedente lo considero un’esperienza chiusa, quel tipo di programma per me è come le relazioni secondo Woody Allen: uno squalo, o va avanti o muore».