Robinson, 4 gennaio 2020
Biografia di A.J. Cronin
La Cittadella parve cosa assai onesta e tranquilla: i difetti, cioè una certa generosità dei personaggi e delle situazioni e l’impianto di sentimentalità borghese di cui il lunghissimo transito – sette puntate, quasi due mesi – si dovette macchiare, provengono tutti dal testo letterario: in certa misura si potrebbe persino sostenere che la riduzione italiana era di tono più sostenuto che la mediocrità dell’originale». Così, in stile Crusca, ancora si esprimevano i critici, in questo caso Gabriele Baldini, scrivendo dello sceneggiato tratto dal celebre romanzo di Archibald James Cronin, scrittore che da sempre aveva fatto stortare il naso ai nostri autori tanto più letterati; era il 1964, anche in Italia le ragazze cominciavano a tagliarsi le gonne e per questo ad essere mazzolate dai padri allora ancora severi e ascoltati, insomma stava per scoppiare la rivoluzione auspicata dalle menti più belle e facilone e tuttavia quelle immagini in bianco e nero conquistarono sfrenatamente la cosiddetta audience che allora si chiamava pubblico, quasi quanto Mike Bongiorno. Fu, sostiene la garzantina televisiva, il più famoso teleromanzo e il più clamoroso caso di divismo generato dalla fiction: Alberto Lupo interpretava il giovane dottor Manson che tra l’altro resuscitava i neonati dati per morti e guariva le isteriche a schiaffi, in modo così convincente che venne più volte invitato come ospite d’onore a importanti congressi medici, ma anche da famiglie innocenti perché miracolasse gli infermi. Naturalmente il romanzo che del resto non aveva mai smesso di far singhiozzare migliaia di lettori anche da noi, ne approfittò esaurendosi ovunque. Dopo una surgelazione di una trentina d’anni, di soppiatto, senza farsi notare, si è recentemente manifestato un sotterraneo e apparentemente inspiegabile bisogno di Cronin, subito compensato da nuove e recentissime edizioni, arrivando, per esempio La cittadella alla venticinquesima italiana in più di 80 anni, la prima apparsa nel 1937. Chi l’avrebbe mai detto che nel famoso paese che non legge non si smettesse di leggere proprio Cronin come fosse un Harmony? Perché pure E le stelle stanno a guardare, sceneggiato nel 1971 con la regia di Anton Giulio Majano e uno stuolo di bravi attori teatrali, aveva superato le americanate del periodo, tipo Zorro o Bonanza, e infiammato nuovamente la voglia del romanzo d’origine: e poiché Cronin torna sempre, eccone una nuova ondata riapparire adesso. Il più amato dei 23 (mi pare) romanzi di Cronin tradotti in italiano, appunto E le stelle stanno a guardare è di quelli che fanno singhiozzare ma anche rasserenare, e ci sono cinefili incalliti anche giovinetti che hanno riscoperto la bellissima versione cinematografica diretta da Carol Reed nel 1939: scena per scena, e pagina per pagina, paese desolato in un Galles miserabile, tutto nero di polvere di carbone, minatori in sciopero da mesi, miniera pericolante, gelo vento e niente legna per riscaldarsi, per cibo qualche tozzo di pane secco, niente acqua dai rubinetti ghiacciati, troppo orgoglio per chiedere la carità, la mamma quarantenne di tre figli adolescenti si alza all’alba e «si perse d’animo un istante; stette in piedi, premendo le mani callose sul ventre pregno…». Cattiveria tremenda dei padroni, indifferenza dei governanti, povertà insopportabile, lavoro durissimo, apoteosi con il disastro annunciato nei cunicoli della miniera, morti su morti, pure bambini lavoratori. «Nessuno muoverà un dito per soccorrerci, nessuno al mondo mi sentite? Nessuno, dobbiamo soccorrerci da noi. Se no non usciremo mai da questa cloaca in cui ci ha piombati il capitalismo…». Che si debba tornare a un romanzo inglese degli anni ’ 30 per risentire queste parole scomparse dal linguaggio politico fa un certo effetto e si corre il pericolo di ricordi sepolti, di nostalgie impossibili: poveri ma in rivolta, affamati ma solidali, e alla fine i cattivi sconfitti. Ma evidentemente Cronin oggi ha una funzione tipo quella delle Sardine, scacciare il brutto e ridare il senso della realtà e speranza: almeno teoricamente. I romanzi di Cronin uscirono in Italia quasi contemporaneamente alla pubblicazione inglese, cioè in pieno fascismo e persino durante la guerra, grazie alla furbizia e al coraggio dei nostri editori come Mondadori, Bompiani, Rizzoli, Vallecchi e altri. Il primo ad opporsi all’invasione dei romanzi stranieri non era stato il regime ma il sindacato dei nostri insospettabili scrittori aderenti saltuariamente alla politica littoria (Marinetti, Montale, Malaparte, Ungaretti, il premio Nobel 1934 Pirandello e molti altri) che per patriottismo, ovvio, sostenevano, l’italianità della letteratura, e dopo la conquista del cosiddetto impero l’autarchia culturale. Ma il problema era solo mercantile; un nostro buon scrittore poteva vendere in un lungo periodo attorno alle 5000 copie per libro, mentre uno americano come Steinbeck, un inglese come Cronin, anche se mal tradotti, in poche settimane superavano le 50 mila. Pur obbedienti al MinCulPop, ad Alfieri, a Bottai, a Pavolini, e quindi fascistissimi, gli editori riuscirono a difendersi con strategie, menzogne, trappole, eleganti bidoni. E Cronin continuò ad essere pubblicato e venduto anche durante la guerra, quando l’Inghilterra era il nostro acerrimo nemico. Cronin era nato in Scozia nel 1896, era cattolico, la moglie medico come lui. Andò a esercitare la professione nella terra desolata delle miniere del Galles, condusse importanti ricerche sulla silicosi, prodotta dalle polveri di carbone. Durante una lunga malattia si dedicò al suo primo libro, Il castello del cappellaio: il successo fu immediato e lui abbandonò la medicina per dedicarsi alla scrittura. Tutti i suoi romanzi sono parzialmente autobiografici, con protagonisti medici, miniere, lande scozzesi, nonni cappellai crudeli, corna, ragazze madri e molto altro. Con la famiglia Cronin andò a Hollywood dove almeno una decina dei suoi romanzi diventarono film, da La Cittadella diretta da King Vidor con Rosalind Russell e Rex Harrison a Il castello del cappellaio con Deborah Kerr e James Mason. Tornato in Europa si stabilì in Svizzera assieme alla nuova compagna, e morì a Montreux nel gennaio del 1981, a 85 anni. Le ultime cine versioni della Cittadella sono indiane, una in lingua Bengali, 1975, una in Telogu, 1982, per dire la fama oceanica dell’autore scozzese. In questi giorni ho trovato in libreria ( editore Bompiani-Giunti) E le stelle stanno a guardare, Caleidoscopio, Anni verdi, di recente ristampa e ovviamente La cittadella, dell’ottobre 2019, con nuova traduzione, meno male, di Maurizio Bartocci.