Robinson, 4 gennaio 2020
Un romanzo di Raffaella D’Elia
La letteratura non tanto riproduce la realtà quanto la rivela, appena deformandola. Proviamo ad aprire Ritmi di veglia, terza opera di Raffaella D’Elia ( Exorma, introduzione di E. Trevi): «Noi portiamo in giro facce stravolte, sempre riconoscibili, ma abitate da qualcuno che arriva e si piazza lì come un parente...». È un libro inafferrabile – sulla vocazione artistica, sull’identità, su una solitudine gioiosa, sulla purezza dell’infanzia – lontano dal mainstream letterario attuale, dalla triste coazione all’intrattenimento e dall’ossessione dell’inchiesta giornalistica. Romanzo in forma di diario lirico costruito su un caleidoscopio di voci ( con l’uso della prima, seconda e terza persona), sogno della mente e anche nitida radiografia del corpo e dell’interiorità, ci richiede un surplus di attenzione, ma non è un’opera algidamente sperimentale. Ci mostra il mondo in cui viviamo, la grande città con insegne e citofoni, solo da una prospettiva appena straniante: «i divertimenti indotti, le file nei centri commerciali, le file: l’umanità nelle sue mestizie, furberie delinquenziali, l’indifferenza, la troppa invadenza, l’opacità...». E ci racconta di Ida, che tutto questo registra puntualmente senza assimilarlo, che al supermercato imita le signore e dice «buongiorno» ma la risposta brusca le fa pensare di essere «troppo gioiosa, inutilmente allegra, in una parola, stonata», che la sera alla finestra cerca il suono della città, che insegna fisica e vagheggia l’utopia stellare della danza, territorio della grazia e della dimenticanza di sé ( che condivide con un personaggio maschile), nella quale al culmine dell’apprendimento «la fatica scompare». Al centro del libro, una vocazione quasi dispotica: alla danza ma più ancora alla scrittura, pratica del corpo e unica forma di concretezza, «quotidianità e mistero, liturgia, materiale di scarto», esperienza compulsiva ( «Ma che te scrivi?», la apostrofava il fratello). Lo stile di D’Elia è trasparente come il cristallo descritto in una di queste pagine, «reticolo infinito» di punti oscillanti: lieve e infrangibile, irregolare e segretamente simmetrico. Una scrittura visiva, iperrelistica e maniacale (l’insetto piccolo e rotondo sul braccio nudo, in estate, che lei non scansa nemmeno, evoca il Calvino di Palomar), l’invito a una ascesi dello sguardo, che fa pensare a Cristina Campo (rifiuta la distrazione inutile, «coltiva la tua distrazione» ). Alcuni passi configurano un poema in prosa: «Cade la neve, Ida resta a guardare, si posa su ogni cosa, giunge diversa, uguale: la neve, la cosa». O la pagina sulle lentiggini della madre: «quelle efelidi dai bordi vaghi, quelle efelidi color sabbia sono il patimento o la leggerezza». Ma sarebbe vano antologizzare singoli frammenti. È la musica d’insieme che innerva ogni scena: una musica sommessa, dissonante, scandita con prosodica esattezza. Ed è sorprendente come nel cuore della alienata quotidianità, nell’affanno insensato delle “commissioni” e incombenze, in quella socialità che le appare come paesaggio invisibile, dentro un acquario dalla vita rallentata Ida reimpara a stupirsi di tutto, come i bambini a scuola, con le grandi lettere rosse dell’alfabeto per nominare le cose. Queste pagine potrebbero ispirare alcune considerazioni critiche sulle patrie lettere oggi. Raffela D’Elia ci ricorda, tra l’altro, che la letteratura nasce da silenzio e solitudine più che da scuole di scrittura e festival; che sempre implica un disadattamento, una “stonatura” rispetto al proprio tempo ( chi si sente del tutto conciliato con il mondo probabilmente non scrive); infine la centralità dello stile – di come dire le cose – al quale sembra che i nostri scrittori siano perlopiù indifferenti, convinti che basti “raccontare storie” ( e in ciò confortati dalla fiction tv). I ritmi o battiti della veglia qui ritratti, entro un «puro paesaggio di vita», ci danno della realtà una percezione ampliata, mai univoca, personalissima ma capace di parlare al cuore di ogni lettore: «La nostra piccola dose d’inferno la calziamo ogni mattina, ma l’alba la confonde con il nascere del giorno e il giorno contribuisce a mescolarla alle nostre attività».