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 2020  gennaio 04 Sabato calendario

La guerra dei Greci

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Siamo nel quinto secolo a. C. e Nicia, condottiero ateniese, ha appena concluso uno scontro vittorioso con i Corinzi. Si accorge però di aver lasciato sul campo i cadaveri di due soldati. Ecco che manda un araldo al nemico chiedendo di poterli raccogliere – eppure, commenta Plutarco, secondo l’antica consuetudine la parte che raccoglieva i suoi morti rinunziava alla vittoria, e perciò stesso non poteva innalzare il trofeo. Nonostante ciò Nicia, che era molto pio, pur di seppellire i due caduti accettò la rinunzia. Questo aneddoto ci apre uno scenario abbastanza inaudito relativamente alle pratiche belliche dei Greci: il combattimento sembra piuttosto simile a una gara, disciplinata da regole rispettate da entrambi i contendenti, che non a una guerra nel senso moderno del termine. A combattere sono cittadini e contadini armati a proprie spese, che si scontrano preferibilmente in estate, per non danneggiare troppo il lavoro agricolo, e di giorno, mentre la presenza di Zeus, testimoniata dal trofeo che il vincitore erigerà in suo onore, impone il rispetto dei morti e un trattamento umano per i prigionieri. Le cose saranno andate veramente così? Chissà, la guerra è guerra, in tutti i tempi. Allo stesso modo è lecito dubitare che la gloria garantita dalla patria ai morti in battaglia – eroi che sacrificavano sul campo il fiore della loro giovinezza – sia stata per tutti un buon motivo per lasciare serenamente casa e famiglia con indosso circa venti chilogrammi di armatura. Ma continuiamo nella lettura di questo bel libro di Marco Bettalli, Un mondo di ferro. La guerra nell’Antichità (Laterza). Nel tempo le cose cambiano, si complicano. Al posto degli eserciti composti da cittadini-soldati, nel quarto secolo in Grecia fanno la loro comparsa i mercenari, combattenti di professione, addestrati ed equipaggiati (e pagati) per il solo scopo di far la guerra; mentre Filippo di Macedonia rivoluzionerà l’arte bellica con la sua micidiale cavalleria e la sua falange formata da uomini armati di lance lunghe fino a sei metri: è come scontrarsi con una sorta di riccio impenetrabile, che un giorno metterà paura perfino al console Emilio Paolo. Ma parlando di Roma, spostiamoci anzi a Canne, in Puglia, nel giorno più buio, forse, di tutta la storia militare romana, il 2 agosto del 216 a.C. Annibale mette in campo una strategia che ancora si studia nelle accademie militari. Un centro cedevole che retrocedendo invita i nemici ad avanzare, mentre le ali li stringono in una tenaglia da cui non avranno scampo. Quel giorno caddero non più di seimila soldati cartaginesi, ma cinquantamila soldati romani. I morti rimasero insepolti, fra i caduti c’erano almeno ottanta senatori. Quale differenza rispetto allo scontro fra Nicia e i Corinzi da cui siamo partiti! La carneficina è immensa, crudele, la potenza militare dei contendenti, e lo sviluppo dell’arte bellica, hanno cambiato il profilo della guerra. Presentato così, il libro di Bettalli potrebbe sembrare solo un affascinante racconto di scontri, battaglie, vittorie e stragi, come già tanti ne esistono, magari accompagnato da riflessioni sulle cause politiche ed economiche dei conflitti. Non è così, o meglio, è anche così, ma soprattutto questo è un libro che” pensa” la guerra antica. La pensa nelle sue motivazioni, nelle sue ideologie, nelle sue innumerevoli connessioni con la cultura e la società delle varie epoche in cui la guerra – unica vera grande costante in tutto il mondo antico – esercitò il suo funesto potere. Un esempio, la religione. Gli antichi non scesero mai in campo per affermare la preminenza del proprio dio, come è avvenuto dopo che i monoteismi hanno sostituito l’antico e flessibile politeismo. Greci e Romani però fecero sempre in modo che i loro dèi partecipassero ai combattimenti, sia direttamente, come nell’Iliade, sia attraverso i sacrifici e le pratiche divinatorie che immancabilmente precedevano gli scontri. Procedure religiose a cui i Romani, giuristi nati, aggiunsero anche regole complicate al fine di presentare sempre come “giuste” (ossia giuridicamente ineccepibili) tutte le loro discese in campo. Dunque, perché combattevano gli antichi? Per costrizione, certo, perché essere cittadino significava inevitabilmente essere anche soldato; poi per difendere la patria, forse anche per la gloria – dipende da quella di chi, comunque. Quanto ad Alessandro, e alle sue guerre di conquista, in tutto il suo agire questo mitico condottiero sembra semplicemente spinto dalla incapacità di fare qualsiasi altra cosa che non fosse combattere: tanto che viene da chiedersi cosa avrebbe fatto, dopo aver conquistato mezzo mondo, se non fosse morto così giovane. Quale differenza corre dunque fra il nostro, contemporaneo modo di concepire questa pratica crudele, e quello di Greci e Romani? Bettalli lo indica chiaramente. Nel mondo antico nessuno mise mai in discussione la liceità della guerra ( come nessuno mise mai in discussione la liceità della schiavitù). Noi, occidentali moderni, al contrario lo facciamo, sia pure fra mille finzioni. Infatti non è che non combattiamo più, semplicemente allontaniamo il compito di farlo dai comuni cittadini, per affidarlo ad eserciti di professionisti e “delocalizzando” gli scontri in luoghi lontani da noi. Per Greci e Romani la guerra era parte integrante della vita quotidiana, noi occidentali moderni, loro discendenti, godiamo dell’incredibile e ipocrita privilegio di starne fuori. A dispetto di ciò, abbiamo anche il coraggio di lamentarci.