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 2020  gennaio 04 Sabato calendario

Dieci miliardi di abitanti

L’unica cosa ragionevolmente certa è più affollamento. La percentuale della popolazione mondiale che entro il 2050 vivrà nelle città, calcolano le Nazioni Unite, passerà dall’attuale 55 al 68 per cento. Solo in Cina, che straccia tutti quanto a ritmi di crescita, ci saranno 900 milioni di persone urbanizzate. Le nuove gigantesche conurbazioni saranno verticali come Hong Kong, con i suoi 350 grattacieli più alti di 150 metri, o orizzontali come Los Angeles, dove i due piani erano la norma? La promessa sbiadita delle auto a guida autonoma riprenderà colore? Saranno più inclusive o insopportabilmente ghettizzanti? Con l’antica avvertenza di uno che di indeterminazione se ne intendeva, il padre della fisica quantistica Niels Bohr ( «È difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro» ), proponiamo un piccolo zibaldone tra le ipotesi meno irrealistiche. Michael Batty, professore emerito di pianificazione urbana all’University College of London e autore di The New Science of Cities, parte dalla nuova geografia: «Città del Messico e Tokyo, a lungo considerate le più grandi città del mondo con oltre 25 milioni di abitanti, di colpo sono state superate dalla Cina. Gli agglomerati Guangzhou- Hong Kong e Shanghai- Hangzhou- Nanjing superano ormai quota 50 milioni e il traguardo dei 100, entro i prossimi decenni, non è fuori portata». Quanto a ciò che succederà al loro interno, nonostante le varie previsioni che scommettono sul sorpasso delle self driving cars sulle auto tradizionali entro il 2050, Batty resta scettico: «L’enorme complessità dell’ambiente urbano potrebbe rendere impossibile l’adozione di massa di tali vetture, salvo che su strade più controllate». Ed è vero che «è sempre più facile costruire grattacieli ma allo stesso tempo il costo dei trasporti andrà giù, grazie a carburanti alternativi rispetto a quelli fossili. Quindi, grattacieli nel centro ma anche vasti suburbi più economici e facili da raggiungere, grazie a innovazioni nella mobilità». Chissà. A San Francisco, città tra le più tecnologiche e diseguali, quelli con lavori redditizi costretti a quattro ore di pendolariato perché non possono permettersi affitti medi da 3600 dollari per un bilocale sono già legioni. Le direttrici alto/ largo e il ruolo delle auto monopolizzano l’immaginazione. «Sistemare oltre tre miliardi di nuove persone nelle città non significa necessariamente riempirle di grattacieli i cui abitanti avrebbero più in comune con uccelli e aerei che con altri esseri umani» avverte Gil Penalosa, consulente nella nascita di 350 città e fondatore della ong canadese 8 80 Cities, «e possiamo ottenere la stessa densità abitativa con tanti edifici da 4- 6 piani più vicini l’uno all’altro, come a Parigi e a Barcellona, piuttosto che palazzoni da 40 piani ai lati opposti di un isolato. La qualità delle vita è infinitamente migliore nel primo caso». L’errore più disastroso da non ripetere è quello commesso quando si diffusero le auto: «Distruggemmo le città per accoglierle. Ora faremmo bene a renderle ospitali per le persone». Invita a guardare a Copenaghen e Amsterdam, dove «il 40 per cento degli spostamenti avviene in bici». Ma soprattutto segnala le ricadute politiche delle scelte urbanistiche: «Nei ricchi Stati Uniti esistono città dove l’aspettativa di vita è di 90 anni in certi quartieri e di 60 pochi minuti più in là. Due pianeti diversi, a un Cap di distanza. È orribile!». A Torino, sul tram dalla ricca zona precollinare alla povera Vallette, si perdono cinque mesi di vita ogni chilometro. E gli studi sulla disuguaglianza di salute, iniziati da Michael Marmot, partoriscono storie dell’orrore alle più diverse latitudini. Per non dire dei nuovi record di homeless, con il picco di 60 mila raggiunto a Los Angeles, dove solo per l’irrigazione del giardino un abitante del quartiere di Bel Air arriva a spendere 90 mila dollari. Cinque anni fa una grossa impresa edilizia britannica chiese a Ian Pearson, un futurologo che vanta «un’accuratezza dell’ 85 per cento», di immaginare le città dei prossimi trent’anni. Tra le principali trasformazioni una sempre maggiore interazione con le case attraverso assistenti virtuali, tipo Alexa. Edifici sempre più alti che diverranno delle vere e proprie mini- città, per chi ha redditi medio- bassi. Finestre rimpiazzate da schermi di realtà virtuale. Muri esterni con vernici capaci di immagazzinare l’energia solare. Riscaldamento e illuminazione che seguono la persona all’interno dell’appartamento ( nella leggendaria casa da 63 milioni di dollari di Bill Gates un sistema simile sarebbe installato dal 2005). Nemmeno la società di consulenza McKinsey si sottrae al gioco degli aruspici urbani. Prevede un brillante futuro per la sharing economy, dalla mobilità agli altri servizi in condivisione, calcolando che potrebbe crescere fino al 35 per cento all’anno. E imputa alla digitalizzazione quasi un terzo del miglioramento futuro della qualità della vita. Esempi pratici: mappe interattive del crimine cittadino, servizi predittivi alla Minority Report per cui i poliziotti intervengono prima che il reato venga commesso, moltiplicazione dei sensori del cosiddetto internet delle cose che consentirà di aggiustare strade e ponti prima di altre tragedie simil- Morandi. Ovviamente la maggiore connessione presenta effetti collaterali: ogni ora circa 4 milioni di dati verrebbero violati nel mondo, stando al Breach Level Index che però è stilato dalla Gemalto, azienda di cybersecurity che ha interesse a magnificare i rischi. L’assenza più sorprendente dalla tavolozza linguistica usata per tratteggiare il futuro è quella del termine smart city. Ancora pochi anni fa straripava da giornali, convegnistica e carriere universitarie. Evidentemente connotato di fuffa, nessuno degli esperti lo nomina più. Già Evgeny Morozov e Francesca Bria in Ripensare la smart city (Codice) facevano notare che nemmeno Google, nel vendere a Toronto Sidewalks Labs, ovvero tecnologie per l’urbanistica, si guardavano bene dal pronunciarla. Meglio procedere senza enfasi. Nel 2012 visitai Arabianranta, un quartiere di Helsinki dove tutto e tutti sembravano essere collegati. Sette anni dopo un articolo magniloquente di Wired non era ancora vero. Molto più utile una missione in Estonia per carpire il segreto della loro piattaforma digitale pubblica. Conobbi Damiano Cerrone, giovane urbanista specializzato in politiche desunte dai social network ( «Se su Instagram scopriamo che le foto nei locali si concentrano in un quartiere inaspettato, è il caso di potenziare i trasporti pubblici notturni» ). Aveva clienti quasi in tutta Europa, tranne che da noi.