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 2020  gennaio 05 Domenica calendario

Biografia di Cochi Ponzoni raccontata da lui stesso

Alla classica agitazione, magari ansia da prestazione (attoriale), all’immancabile reflusso gastrico, alle scaramanzie, alle cene dove è opportuno presenziare, ai dati di ascolto o di botteghino, Cochi Ponzoni risponde stupito: “Non ho mai un incubo. Mia moglie sostiene che ogni tanto la notte scoppio a ridere; spesso anche i miei sogni sono umoristici”. Quindi riflette, prima con gli occhi, poi con la testa, e continua: “Mi sono veramente divertito”.
E così la vita (l’è bela) del 78enne Cochi è come una perenne parte ragionata di un copione cesellato oltre le sue aspettative, quasi da diventare una commedia in stile hollywoodiano: l’amico d’infanzia è ancora tale (Renato Pozzetto), poi il gruppetto del bar composto dal gotha dell’intellighenzia milanese (Lucio Fontana, Dino Buzzati, Luciano Bianciardi e Piero Manzoni); alcuni “maestri” niente male (Enzo Jannacci, Giorgio Gaber e Dario Fo) e alla fine “ho realizzato esattamente la carriera che desideravo”.
Aggiungiamo: dopo cinquanta e passa anni di palco, televisione e cinema, il duo Cochi e Renato resta sinonimo di avanguardia della risata, di sperimentazione, di surrealismo non ancora superato, tanto da dedicargli studi, puntate sulla Rai (benedetto Techetechetè), libri, l’ultimo dei quali è La biografia intelligente (di Andrea Ciaffaroni e Sandro Paté per Sagoma editore), nel quale oltre a parlare con i due protagonisti, si dà voce agli amici e ai colleghi del periodo.
Senza ansia, è una rarità.
Sempre stato un incosciente, non ho mai subito particolarmente le difficoltà; eppure l’esordio è arrivato prestissimo: già a 14 anni mi esibivo all’oratorio con canzoni popolari, alcune anarcoidi.
E andava per locali…
Quello poco dopo: a 16 anni uscivo la sera con Renato; noi due avevamo molta libertà di movimento, forse troppa, tornavamo a casa tardissimo, e solo ogni tanto ho preso qualche cazzotto da mia madre. Ma veramente ogni tanto, perché non si preoccupava, infatti è morta a 101 anni (riflette). E così ho conosciuto sia Gaber che Jannacci.
Gaber era il suo insegnante di chitarra.
Esatto, ed è stato proprio Giorgio a presentarmi Enzo: una sera entro in un locale e lo trovo avvolto dal suo pianoforte. Appena l’ho sentito cantare, me ne sono innamorato, le sue parole arrivavano da un’altra dimensione personale, culturale e morale.
Addirittura.
Enzo è stato un punto di riferimento, ci ha regalato la sua amicizia e ci ha insegnato la disciplina; e poi ci passava dei testi importanti da leggere come Mrozek, Ionesco o gli autori russi.
Scuola di vita.
All’inizio teneva anche i contatti per noi, ci aiutava nella produzione e senza mai interessarsi a un ritorno economico. Era solo per amicizia. Ed è grazie a lui se siamo riusciti a firmare per la Rca, a Roma.
Allora, una potenza.
Ricordo un appuntamento proprio a Roma, e dai discografici: Enzo porta Vengo anch’io, no tu no, e noi La gallina. Entrambi i brani li ascolta un celebre conduttore radiofonico e resta totalmente inorridito.
E…
Organizzano una riunione con tutti i dirigenti, e lì Enzo parte con un monologo di dieci minuti, un monologo completamente incomprensibile, una sorta di supercazzola in stile Amici miei, dove ogni tanto si comprendeva un vocabolo, solo uno, fino a concludere il tutto con un moto d’imperio: “Per noi va bene così”. Discorso chiuso.
Aveva ragione Jannacci.
Eccome, poi si sono tramutati in due grandi successi anche se ancora oggi né io né Renato abbiamo capito del perché La gallina è così amata (cambia tono). Davvero, Enzo ci seguiva solo per amore, una volta ho sentito una telefonata paradossale, nella quale rifiutava un paio di ingaggi importanti e solo “perché devo stare con Cochi e Renato”.
Anche Jannacci partecipava alle vostre prime esibizioni al bar?
Era un ambiente multicolore: c’era quello di passaggio, quello stabile, il gruppo di amici, amici improvvisati, e lì si creava inconsapevolmente e altrettanto inconsapevolmente acquisivamo i primi rudimenti di un mestiere, fino a quando ci hanno consigliato di riproporre su un palco vero le scenette che improvvisavamo tra quei tavolini.
Vi interessava la politica?
In quegli anni tutto era politica (ride). Comunque allora potevi cadere in qualunque situazione: ci ingaggiano per una serata ad Arezzo, era di lunedì, quindi giorno di pausa, e con un buon cachet. Ci ritroviamo sul palco di un circolo culturale, io e Renato iniziamo, ma neanche una risata. Gelo in sala. Tocca a Jannacci che intona Il primo furto non si scorda mai, in cui c’è una strofa che recita “quel tacchino micidiale era un’aquila imperiale”, con chiaro riferimento ironico al fascio.
E qui applausi, ad Arezzo.
Al contrario iniziano a piovere monetine e insulti sempre più pesanti, un crescendo, fino a quando Teocoli, presente in platea, si lancia in una scazzottata incredibile. Da solo. E conclusa con un bel viaggio insieme alla celere.
Addirittura.
Non avevamo capito che quello era un circolo di fascisti che si chiamava “Giovani d’Italia”: eravamo finiti in una trappola.
Che trappola?
Scritturati per umiliarci.
Qualcosa di simile la racconta Jacopo Fo nel libro dedicato ai genitori.
Allora poteva accadere (cambia tono). Dario ci ha regalato momenti irripetibili e, dietro alla reale bellezza o apparente leggerezza, nascevano vere lezioni di teatro che si tramutavano in strumenti di vita.
Un esempio.
All’inizio dell’estate, io e Renato scappavamo da Milano per raggiungere Dario e Franca Rome a Cesenatico; un giorno, in spiaggia, proprio Dario si alza in piedi, si piazza sul bagnasciuga e poco dopo inizia a gridare di un naufragio all’orizzonte. Ed era convincente.
Quindi…
I turisti iniziano a fermarsi e in pochissimo tempo si raduna un gruppetto di persone; noi due capiamo la situazione, ci alziamo e offriamo il nostro contributo: qualcuno dei presenti ipotizzava la presenza reale di quel naufragio, una sorta si suggestione collettiva e indotta. Così all’improvviso siamo stati protagonisti di una grande lezione di recitazione: l’attore deve far credere, credendoci. Ah, ovviamente c’era Jannacci.
Sempre insieme.
Come dicevo, eravamo un gruppo indissolubile di amici, sodali, parenti non di sangue. Quando è morto Enzo è come se avessi perso una gamba (Sorride). Un anno siamo partiti per l’India e il viaggio è durato un mese, ci sentivamo come i Beatles.
Torniamo al bar: in quel gruppo c’erano Manzoni, Fontana e Buzzati…
Ed era normale proseguire insieme fino a mattina, invertire la notte con il giorno e magari crollare per il sonno sui banchi di scuola.
Manzoni folle.
Aveva una concezione propria del pericolo, da artista sentiva l’esigenza di affrontare in faccia i rischi; personalità come la sua hanno gonfiato il nostro coraggio con la loro filosofia di vita e relativizzato una concezione del mondo che già a Milano si stava avviando verso una mera valutazione economica.
Il “Derby”.
Un successo esagerato, ma i nomi in scena allora erano importanti: su uno stesso palco salivamo io e Renato, poi Felice Andreasi, Lino Toffolo, Enzo Jannacci e Bruno Lauzi. In certe fasi avevamo tre spettacoli nella stessa serata e la fila fuori di due o trecento persone.

Come avete impiegato i primi soldi guadagnati?
Ci siamo sposati tutti e due e a distanza di una settimana: non potevamo insieme per non interrompere il lavoro.
Nel libro dichiara: “Perfino la malavita era romantica”.
Di alcuni sapevamo che erano ladri o truffatori, ma possedevano uno spirito dissacrante e una forza rara; era gente del popolo, era antropologia, personalità di ringhiera, e da loro abbiamo “rubato” parte del nostro linguaggio.
Un suo difetto?
Sono pigro, se potessi non combinerei nulla: per me il massimo è restare in casa per suonare la chitarra.
Con voi la chitarra è stata spesso protagonista in tv…
In quel contesto non sempre ci hanno capito.
All’inizio non sempre era semplice.
A volte potevamo suscitare sentimenti di fastidio, apparire come dei pazzi, ma siamo riusciti a far passare dei messaggi per allora rivoluzionari.
Tipo?
Negli sketch dedicati alla scuola, i dirigenti della Rai non avevano capito che una delle scenette era incentrata su un professore povero che cercava di farsi corrompere da un genitore facoltoso, quella del “bravo 7+”. Ancora sorrido se penso agli occhi sbarrati del pubblico seduto in platea.
Quando è tornato in tv nel 1992, Paolo Rossi ha detto: “Nella vita dell’uomo ci sono tre misteri: cosa ha fatto Gesù da 12 ai 30 anni; cosa ha fatto Silvio Berlusconi dal 1960 al 1975; cosa ha fatto Cochi Ponzoni dal 1979 a oggi”.
Poco prima della trasmissione gli avevo confidato un episodio del giorno precedente: ero entrato in un grande magazzino, e mi sentivo osservato. Nulla di strano, ero abituato. Però la commessa insisteva e con uno sguardo strabuzzato: “Perché mi guarda così?”, le domando. E la ragazza: “Credevo fosse morto”.
Conta la tv…
Sì, la televisione è il parametro, e su di me in parte lo capisco: dal 1968 al 1974 come Cochi e Renato, siamo stati molto presenti, con programmi da 30 milioni di telespettatori, numeri che oggi non esistono più.
E poi?
Io e Renato abbiamo preso strade differenti, ma in amicizia, ognuno con le sue scelte, e in quel periodo avevo scoperto il teatro di prosa, avevo conosciuto Ennio Flaiano.
Mentre Pozzetto ha puntato sul cinema.
I film li hanno proposti anche a me, qualcuno l’ho accettato, ma erano gli scollacciati dell’epoca, quelli con la Fenech perennemente sotto la doccia, e mi sono subito fermato.
Prima però ha partecipato a Il Marchese del Grillo con Alberto Sordi.
Con Sordi anni prima avevo girato Il comune senso del pudore, e già allora avevo scoperto un uomo con un lato umano spiccatissimo, lontano da quella leggenda di tirchio.
Solo leggenda.
Un giorno gli ho domandato di questa storia, e lui: “Mo’ te lo spiego: la mia è stata una gavetta pazzesca, ero un morto di fame. Quando sono diventato famoso hanno iniziato a rompermi le palle, tutti avevano una nonna malata da curare, e così sono stato costretto a difendermi”.
Lei si è difeso?
Per me è differente, negli anni Settanta la svolta professionale mi ha portato altrove, e come ho raccontato prima, per alcuni non sono esistito più.
Non le è dispiaciuto.
E perché? È stata una scelta consapevole, e come entrambi abbiamo ripetuto all’infinito, tra me e Renato non c’è stata alcuna lite, siamo sempre amici come a pochi capita.
Lei si sente un 78enne?
(Ride a lungo) No, assolutamente, e questo è il mio problema.