Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  gennaio 05 Domenica calendario

Biografia di Philippe Lançon di Charlie Hebdo

Le lambeau è il titolo originale di questo libro in cui Philippe Lançon, uno dei giornalisti sopravvissuti alla strage islamista di Charlie Hebdo, racconta il suo calvario chirurgico-esistenziale: nove mesi di ospedale, 15 operazioni, la ricostruzione della parte inferiore del viso. «Mi avrebbero fatto un lembo. Si preleva un perone dal paziente e lo si trapianta su quel che resta della mandibola per compensare il deficit osseo. Vengono trapiantate anche una vena, un pezzo d’arteria e un po’ di pelle del polpaccio corrispondenti al perone prelevato, il kit completo, per vascolarizzare, ossia innaffiare come una pianta, l’osso aggiunto e permettergli di adattarsi al nuovo ambiente con una compagnia familiare».
L’asetticità e l’apparente razionalità con cui l’intervento viene spiegato al paziente servono a far dimenticare a quest’ultimo ciò che, al momento dell’attentato, gli si è presentato di fronte: «Al posto del mento e della parte destra del labbro inferiore c’era non un buco, ma un cratere di carne distrutta e cascante che sembrava essere stata messa lì dalla mano di un pittore bambino, come colori a guazzo su una tela. Ciò che restava di gengive e dentatura era messo a nudo, e l’insieme, quell’unione di un viso per tre quarti intatto e per un quarto distrutto, faceva di me un mostro».
Le lambeau è divenuto in italiano La traversata (edizioni e/o, traduzione di Alberto Bracci Testasecca, 460 pagine, 19 euro) e il cambiamento non tradisce, ma illumina meglio il libro di Lançon perché indica un percorso, quello di un uomo che non era «completamente morto» e che doveva convivere con l’uomo «che stava per sopravvivere» e insieme il prendere atto di una selezione dei ricordi per cercare di far combaciare le due identità: «Volevo davvero uscire e ritrovare la mia vita di prima’ come si auguravano quelli che sembravano mettere tra parentesi un evento che nella mia vita metteva tra parentesi tutto il resto. O non volevo?».
In sostanza, in quell’anno all’incirca in cui Lançon cerca di riacquistare un volto umano che lo riconcili con l’umanità di sé stesso e del mondo, ciò che egli sperimenta è proprio l’essere «esiliato dalla mia stessa vita», il vivere «il tempo interrotto invece del tempo perduto e ritrovato. Il tempo dell’evento brutale è osceno e infinito. Non ha limiti». Per certi versi, ciò che accade a Lançon è anche quello che hanno provato tutti quei sequestrati preda della cosiddetta sindrome di Stoccolma, con la variante che nel suo caso non c’è la morbida assuefazione al carceriere-carnefice di cui si è in balia, ma al fatto in sé, alla violenza subita dalla quale non si sa e/o non si vuole uscire: «Marilyn informava i nostri amici della situazione, e insieme ragionavano sui vari modi di rimettermi in sella. Non mi andava giù che cinque minuti di orrore potessero liquidare tanti anni di ricordi mi ha detto in seguito. Quanto a me, non mi andava giù che tanti ricordi fossero sopravvissuti a pochi minuti di orrore. Per continuare dovevo scegliere, scegliere mio malgrado. Non avevo più diritto al minimo sciroppo di nostalgia».
Che tipo di giornalista è Philippe Lançon prima di ritrovarsi «un ferito di guerra in un Paese in pace»? Cinquantenne, ha un passato da inviato nei luoghi caldi del mondo, un presente da critico letterario per Libération cronista per Charlie Hebdo, e non sa perché e come sia passato dall’uno all’altro: «Ho rinunciato a una carriera di reporter che sembrava aspettarmi a braccia aperte» e con essa all’idea che la storia assomigliasse a «un avventura di nostra proprietà». Nel tempo si è accorto di guardare a quest’ultima «come un uomo guarderebbe filare una locomotiva standoci sopra senza alcun aiuto né competenza» e insomma se n’è andata la giovinezza e il poter essere «ingenuo, ottimista, angosciato, quasi innocente. Il mondo che stava finendo ci lasciava ancora la possibilità di essere giovani il più a lungo possibile».
Le due testate per cui Lançon scrive sono per certi versi il concentrato di cosa sia un intello francese di inizio millennio, il nostro, o di fine millennio, quello che lo ha preceduto. Rappresenta quell’intellighentia libertaria, permissiva, egualitaria, femministe e antirazzista, pauperista di sinistra e però globalista, fautrice del chilometro zero, ma nemica delle tradizioni e del radicamento, genericamente antiliberista... È un’intellighentia minoritaria, ma per nulla marginale e comunque virtuosa, perché depositaria del bene, di ciò che è giusto e quindi paradossalmente priva di qualsiasi empatia per ciò che dalla sua cattedra giudica sbagliato. Lançon gira per Parigi in bicicletta, una Luis Ocaña verde acqua della fine degli anni Settanta. Ocaña è stata una leggenda spagnola del ciclismo francese, morto suicida «tra i suoi vigneti del sud della Francia. Aveva sostenuto attivamente il Front National di Jean-Marie Le Pen, ma per quanto ne so non è quella la ragione del suo gesto, anche se appoggiare un partito del genere poteva già essere sintomo di una forma stupida di disperazione». Nell’insieme della frase c’è, in bella forma, il totalitarismo intellettuale di chi non concede nulla all’avversario.
Il giorno in cui l’attentato ha luogo, Lançon è reduce dalla lettura di Sottomissione, di Michel Houellebecq, e pur essendoci in esso l’esatto contrario delle sue idee, trova che «emanava un profumo che corrispondeva all’epoca, aveva saputo dare forma al panico contemporaneo. Il bravo romanziere ha sempre ragione, perché è lui che leggiamo e leggeremo». Houellebecq, insomma, non è Ocaña e si è più generosi con gli scrittori che con i ciclisti...
La traversata è un viaggio all’inferno, ed è un viaggio senza ritorno, nel senso che niente poi sarà come prima. Comporta il prendere atto che a scomparire è soprattutto la voglia di giudicare: «Esistevo solo in quanto corpo che non era del tutto mio, in una vita che non era del tutto mia, la cui coscienza accoglieva senza morale e senza resistenza tutto quello che si presentava». Allo stesso modo, la più totale libertà d’espressione ha per contrappeso, per contrappasso si potrebbe dire, la critica più radicale: «Quando Salman Rusdhie era stato vittima della fatwa dell’ayatollah Khomeini, lo scrittore V.S. Naipaul si era rifiutato di sostenerlo dicendo che dopotutto si trattava di una forma estrema di critica letteraria. Il suo sarcasmo non era del tutto privo di senso: ogni censura è effettivamente una forma estrema e paranoica di critica. La forma più estrema poteva essere esercitata solo da ignoranti o illetterati, era nell’ordine delle cose, ed era esattamente quello che era successo: eravamo stati vittima dei censori più zelanti, quelli che liquidano tutto senza aver letto niente».