Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2020
Tutte le stroncature di Giovanni Raboni
Nella letteratura, e in generale nelle arti, sembra oggi molto scarsa la disponibilità a rimettere in discussione i valori che ci vengono dal passato, almeno da quel passato otto-novecentesco che malgrado tutto continua a nutrire le ricerche contemporanee. Allo stesso tempo, come se fossero fatte della medesima sostanza, si agganciano al suo cielo di stelle fisse le opere appena uscite che godono del miglior lancio o di una fortuna inattesa. Anziché demistificare il racconto storico ricevuto, si mitizzano così zone sempre più vaste di un presente ancora immerso nella cronaca (quanti “capolavori assoluti” escono al mese?). Particolarmente preziosi appaiono perciò i libri che mettono in dubbio le sistemazioni frettolose. È il caso di Meglio star zitti? Scritti su letteratura cinema teatro (1964-2004), l’Oscar Mondadori in cui Luca Daino ha raccolto e introdotto buona parte della più acuminata produzione critica di Giovanni Raboni, dai saggi sui “Quaderni piacentini” ai corsivi del “Corriere”.
Nella sua prima maturità, mentre si consolida l’industria culturale, Raboni vede sorgere un tipo di mitizzazione immediata che conosciamo bene: nel 1978, ad esempio, stigmatizza l’iniziativa con la quale Mondadori, dopo aver creato intorno a Horcynus Orca una suspense da capolavoro, stampa una guida all’opera di D’Arrigo come fosse un classico, e dà così per acquisito quel che sarebbe da dimostrare, cioè la sua grandezza. A partire dagli anni Ottanta, editori tanto più disinibiti quanto meno sono liberi lanciano “il più grande” giovane narratore ogni stagione. Nel frattempo il dibattito tra visioni critiche è sostituito dalla retorica dell’editing, da canoni arbitrari (il modello è Bloom), o da pretestuosi inviti alla lettura come quello di Pennac, che insiste sulla fame di storie degli esseri umani, e a cui Raboni sensatamente risponde che se si trattasse solo di soddisfare un tale bisogno basterebbero i telefilm. Ciò che accomuna monumentalizzazioni accademiche e campagne pubblicitarie è la finzione che esista un «club dello spirito» da cui una volta entrati non si può essere espulsi. Al contrario, ricorda Raboni, «ogni valore deve continuamente tornare in gioco»: e lo dimostra con gli esempi. Confrontando scrittori che gli sembrano sottovalutati con altri su cui ritiene ci sia troppa enfasi, oppone Cordelli a Del Giudice, Volponi a Calvino, e rivendica la maggiore statura di Rebora, Tessa e Saba rispetto a Montale, trattato indebitamente come un autore canonico da secoli, cioè come un oggetto di puro studio del quale si dà per presupposta la valutazione.
Ma il principale obiettivo polemico è il midcult vittorioso, coi suoi libri non tanto brutti ma falsi, che intercettano e sviliscono insieme «esigenze “ingenue” ed esigenze “sofisticate”»: il critico censura più volte i testi in cui la patina decorativa dello stile si sovrappone inerte alla materia, e soprattutto gli autori considerati a torto «barocchi o neogaddiani», che in realtà «tentano di dissimulare sotto roselline di stucco, incrostazioni di finta madreperla e glasse colorate la superficie di una scrittura intrinsecamente non meno piatta e desolata del retro di un casamento popolare». Tra i bersagli troviamo qui certo Bufalino e Stefano Benni, «l’ultimo scrittore al mondo che crede ancora nell’irresistibile comicità della congiunzione “laonde” e della litote “non avremmo discaro”».
Ma Raboni addita la falsa raffinatezza anche negli idoli internazionali. Il successo abnorme di un minore come Borges è dovuto secondo lui al fatto che le sue “macchinazioni narrative”, in apparenza vertiginose, risultano così nitide ed elementari da poter essere riassunte come «barzellette». Abisso trompe l’oeil da una parte, e griffe stilistica dall’altra, sono quasi sempre inseparabili dallo snobismo, ossia da un’angustia estetica e in definitiva umana come quella denunciata in Thomas Bernhard, «caricatura tirolese di Swann».
C’è poi qualche scrittore che ha tradito la sua vena più autentica per offrire un bignami di sé stesso: e qui spiccano i nomi di Kundera, Moravia e Calvino, il cui apologo più istruttivo sembra a Raboni la linea involutiva della carriera. Morale: «chi vuol farsi ascoltare da tutti ci riesce, purché rinunci a dire quello che aveva da dire». Ma le stroncature, se riguardano autori di talento, servono a richiamarli alla loro vera misura. Dove è rispettata, il critico mostra ben poche idiosincrasie: assapora tutto avidamente, con una disponibilità a lasciarsi sedurre proporzionale alla finezza del suo orecchio.
Si legga l’articolo su Prévert, trattato con un’equità aristocratica che è il contrario della sufficienza snob di Arbasino, il quale mentre il francese conquistava le masse scrisse che ormai la gente si suicidava citando «poeti di terz’ordine». Raboni racconta come da ragazzo è stato incantato dalla sua souplesse, come poi se ne è disamorato fino a considerarlo inconsistente, e come in seguito ha scoperto «quanti piccoli prodigi formali» nasconde sotto l’«apparente facilità». Ma anche Prévert, per essere apprezzato, va goduto «distrattamente», senza pretendere di farne un autore da Pantheon. D’altra parte «Che gusto ci sarebbe se acrobati e clown si esibissero alla Scala anziché al circo o per la strada?». A questo eclettismo di lettore corrisponde la flessibilità della prosa, che scioglie elegantemente gli epigrammi nel flusso di informazioni e commenti, e alterna la sprezzatura alla trepidazione.
Finché si muove tra la singola pagina o figura e la diagnosi culturale, Raboni appare efficacissimo. Diverso l’esito quando delinea la sua politica della cultura fondata su uno schematico marxismo, cui si aggiungono un moralismo e un pragmatismo lombardi che non sembrano né davvero pratici né moralmente convincenti. Velleitaria, ormai lo sappiamo, è ad esempio la proposta di contrapporre alle classifiche commerciali una giuria di qualità, dato che gli operatori chiamati a farne parte sono molto più prodotti che produttori di ciò che dovrebbero contrastare.
Oggi il critico non può e non deve contare su quel ruolo pubblico che Raboni ha ricoperto come un ultimo, eccezionale epigono. Né gli è permesso farsi scudo con un apriori teorico, perché «non c’è metodo che non abbia bisogno», se lo si vuol concretizzare in un giudizio attendibile, «di quell’ineffabile ma indispensabile dovere-virtù che è (absit iniuria verbis) l’intuito critico». A prescindere dal contesto, ecco una tautologia dalla quale non si scappa.