Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2020
Biografia di Federico Faggin raccontata da lui stesso
«Silicio. Dall’invenzione del microprocessore alla nuova scienza della consapevolezza»: già nel titolo del libro di Federico Faggin c’è tutta l’incredibile storia di questo italiano, al quale la comunità scientifica deve il formidabile impulso vissuto dalla tecnologia negli ultimi cinquant’anni. Se oggi usiamo dispositivi grazie ai quali maneggiamo e trasferiamo informazioni in modo istantaneo, se il termine «microchip» fa parte del nostro linguaggio quotidiano, se impartiamo istruzioni al tablet con un semplice tocco delle dita, lo dobbiamo a questo signore, questo italiano – oggi naturalizzato statunitense – classe 1941, da Isola Vicentina, che ha compiuto studi tecnici, senza la benedizione del padre che avrebbe preferito per lui una formazione umanistica.
È in Italia per presentare il suo libro, scritto con l’obiettivo di restituire alla collettività mondiale la verità sulle sue invenzioni e nel quale ha messo nero su bianco vita e traguardi raggiunti con determinazione, visione, audacia, fatica e molto sacrificio: nessuno può immaginare quanto, senza leggere il libro. I primi anni di lavoro alla Fairchild Semiconductor, il passaggio nel 1970 alla Intel, i complicati rapporti con Andy Grove e Leslie Vadasz, la scelta (“La mia terza vita”) nel 1974 di fondare Zilog, la sua prima azienda. La vera scuola, dopo il diploma, in Olivetti, poi il forte richiamo del «California Dreamin’»: nel 1968, con la moglie Elvia appena sposata – di cui sarà fondamentale l’impegno per proteggere la proprietà intellettuale del creativo consorte – si trasferisce a Santa Clara. Gli Stati Uniti gli daranno molto, come quando nel 2009 – direttamente dalle mani di Barack Obama – riceve la National Medal of Technology and Innovation. Ma non lesineranno amarezze, quando i big della new economy proveranno a minimizzare le sue scoperte, con l’obiettivo di farle proprie. Nel suo libro non esita a parlare di «serpenti in giacca e cravatta». Una storia che racconterà decine di volte nel tour italiano, come tante volte deve spiegare come mai difende così tardi la sua storia professionale.
«Dipende dalla consapevolezza che si ha in ogni fase della vita. Io adesso sono capace di difendermi molto più di allora. Ma all’inizio non riuscivo a riconoscere questo errore», spiega mentre mangiamo un risotto a casa di una comune amica. «Forse a causa del buonismo che fa parte della cultura italiana, che viene dalla religione e che mi sono portato in America, dando spazio – nel mio caso – a persone non proprio etiche. Quando me ne sono accorto non potevo fare molto: se avessi dovuto difendermi personalmente avrei dovuto fermare il mio lavoro, perché le azioni legali sono lunghissime. Così lo ha fatto mia moglie Elvia».
Leggendario il «No, grazie» rivolto a Steve Jobs, cui rifiutò di vendere il Touchscreen (il primo modello lo sviluppò proprio Faggin con il suo team, insieme al Touchpad nel 1994). «Jobs aveva in mente di usarlo nell’iPhone. Dopo averlo visto, voleva in esclusiva la nostra soluzione. Se gliela avessimo concessa ci avrebbe messo in una posizione di “sudditanza”. Non abbiamo accettato, lui se l’è fatto per conto suo, creando mercato per i competitori e decretando un successo ancora più grande per la nostra compagnia».
Quando gli chiediamo quali sono le maggiori curiosità che si accendono attorno alla sua persona, spiega che più che il suo passato a colpire è il suo presente. «Le persone sono stupite che io stia parlando di consapevolezza, di coscienza, di natura della realtà, argomenti che non erano nel menù di qualcuno come me che ha sviluppato prodotti di tecnologia d’avanguardia e che non hanno niente a che fare con queste tematiche. Quando si parla di macchine che saranno coscienti tra venti, trenta anni e si parla di robotica che forse supererà l’uomo, si capisce che sono diventati temi di attualità, ma io li studio da quando erano oscuri e di poco interesse».
Con un profilo come quello di Federico Faggin non si può perdere l’occasione di affrontare le questioni italiane più rilevanti, a partire dalla situazione del mercato del lavoro in cui domanda e offerta non si incontrano per la forte mancanza di competenze. «Non ero al corrente che ci fosse una carenza così forte – confessa -. Molti industriali mi raccontano come facciano fatica a riempire i posti disponibili: un grande contrasto con l’alto livello di disoccupazione giovanile. Significa che i ragazzi non sono informati o scelgono studi e carriere in cui c’è una sovra-offerta e se scelgono sapendo che faranno fatica a trovare lavoro è un problema anche peggiore: significa che c’è poco giudizio». Una carenza che, ci spiega Faggin, esiste anche negli Usa. «La Silicon Valley deve importare dal resto del mondo un altissimo numero di ricercatori, scienziati, ingegneri, tecnici. Così è stato istituito uno speciale visto che consente di soddisfare il fabbisogno delle aziende, parliamo di migliaia di profili l’anno. Perché anche in America le facoltà Stem sono scelte da appena il 5% degli studenti. In Cina si arriva al 45%! In Italia sono ancora meno: un problema serio».
L’altro grande limite è quello di vivere come un dramma la questione dei cervelli in fuga. Come la commenta chi lo è stato, a sua volta, cinqunat’anni fa? «Un’esperienza all’estero è una ricchezza per il Paese, se poi il Paese ti fa ponti per tornare. Conosco persone che dopo aver fatto esperienza negli Usa lamentano che l’Italia è un Paese che non riconosce. E c’è ancora l’idea del posto a vita: mentalità che è ora di abbandonare».
Interessante la testimonianza sullo sviluppo delle sue aziende grazie al venture capital, in Italia non particolarmente sviluppato poiché percepito come il mondo degli investitori mordi e fuggi. «Non è un’immagine corretta. Non si può pretendere, se si investe in un’azienda che parte da zero, di avere ritorni prima di dieci anni. Nella Silicon Valley nel secondo trimestre del 2019 gli investimenti totali di venture capital sono stati pari a 65 miliardi di dollari. Almeno la metà è fatta da Angel Investors, persone come me che sostengono le prime fasi di vita di una azienda, quando serve una guida ai nuovi imprenditori. Un modo di restituire alla società quello che si è imparato».
Spiegare la sua “quarta vita” non è semplice. Partiamo dal suo studio «Sarà possibile fare un computer consapevole?». Fare una macchina a somiglianza d’uomo è sempre stato il sogno dell’umanità. Ora questo sogno si è trasformato in possibilità, ma emergono forti dubbi che una macchina possa diventare davvero intelligente. «Negli ultimi anni ho cercato di articolare meglio questo concetto. Il computer può solo meccanizzare, fare cose che sono meccaniche per noi e imitare gli aspetti mentali meccanici, perché noi eseguiamo molte funzioni meccanicamente. Ma come misuriamo le emozioni? Quanto è il mio amore per qualcosa o il mio odio per qualcuno? E la creatività, che sembra uscire addirittura dalla capacità del pensiero razionale? Questo parte da presupposti logici accettati senza prova. Poi fa un percorso razionale di ragionamento, usando regole di logica e arrivando a conclusioni. Ma i presupposti sono basati sulla comprensione, che va al di là dell’algoritmo. La comprensione è ciò che assicura che un assioma o un postulato è più valido di un altro senza poterlo provare: una capacità umana che va al di là della macchina. Il computer amplifica (a volte in misura enorme) le nostre capacità meccaniche: io posso fare una moltiplicazione in tre minuti se è di otto cifre, ma il computer più potente ne fa milioni di miliardi. Il computer che ho in tasca ne fa dieci miliardi. Cosa vuol dire: che il computer è meglio di me? Passando poi alla natura dei sentimenti e delle sensazioni non si sa neanche dove cominciare per dare questa capacità alla macchina, che è solo fatta di simboli e segnali elettrici che producono altri segnali. Siamo noi a dare significato ai simboli della macchina. Ma la macchina non sa di sapere e di non sapere: semplicemente è un insieme di azioni e reazioni. Come scrivo nel mio libro “è buio dentro la macchina”, che è persino un’affermazione poetica perché nella macchina non c’è un dentro. Noi abbiamo un dentro: emozioni, pensieri, vita interiore, spiritualità. Possiamo dire che abbiamo luce dentro, mentre la macchina non ha neanche un dentro».
Oggi Faggin finanzia lo studio in questo complesso campo grazie alla Fondazione creata con sua moglie, sostenendo tre gruppi di ricerca e alcuni ricercatori indipendenti. «È un processo lento, ma anche fecondo». «Tra gli scienziati che la pensano come me c’è Christof Koch che ha lavorato con Francis Crick (scopritore del Dna con James Watson, ndr): erano entrambi interessati alla coscienza venticinque anni fa e hanno lavorato molto sulla coscienza come “pura materialità”. Koch oggi è a capo dell’Allen Institute for Brain Science di Seattle, un centro che studia il funzionamento del cervello umano fondato da uno dei due fondatori di Microsoft, Paul Allen. Nel suo recente libro “The Feeling of Life Itself” spiega che la coscienza è irriducibile e che il computer non sarà mai consapevole. Per la prima volta uno scienziato di fama esce dal closet e dice qualcosa che va contro corrente. È quello che è successo anche a me: dopo vent’anni di studio sulla consapevolezza pensando che fosse una proprietà della materia, sono arrivato alla conclusione che non lo era. Da dieci anni sto sviluppando un modello che la possa spiegare sulla base di una sorta di nuova scienza». Prima di salutarci, chiedo se questa scienza ha già un nome. «Non ha importanza – chiosa Faggin – io la chiamo “la nuova scienza della consapevolezza”: ma è un’allusione al fatto che per spiegarla bisogna rivedere tutti i presupposti della scienza materialista».