Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2020
Così Trump ha deciso il raid
«Ho ordinato l’attacco con il drone per fermare una guerra, non per cominciarne una». Donald Trump ha spiegato con poche parole il blitz che ha ucciso Qassem Soleimani. L’uomo dietro a tutte le operazioni anti-americane in Iran, Iraq, Libano, Siria e a Gaza negli ultimi venti anni.
Trump ha trascorso le due settimane di vacanze in Florida con continue riunioni per la crisi con Teheran, le suites del resort trasformate in situation rooms. Giovedì alle 17, poche ore prima dell’attacco, ha partecipato a un meeting con il consigliere di Sicurezza nazionale Robert O’Brien, il ministro della Difesa Mark Esper, il direttore della Cia Gina Haspel, Mick Mulvaney capo ad interim dello staff della Casa Bianca e il consigliere legale Eric Ueland. Trump era molto arrabbiato per l’attacco all’ambasciata americana. I suoi più stretti collaboratori gli hanno illustrato le opzioni possibili. La sera è arrivata la decisione. Trump ha scelto di osare a eliminare un personaggio che né Bush e né Obama prima di lui si erano sentiti di toccare.
Il punto di non ritorno è stato l’attacco all’ambasciata americana a Baghdad l’ultimo dell’anno, una delle più estese e fortificate, simbolo della potenza americana. Il fantasma di Bengasi, l’assalto al consolato americano in Libia nell’ottobre 2012 nel quale furono uccisi l’ambasciatore Chris Stevens e altri tre americani, ha agitato le festività del “commander in chief”. Il senatore repubblicano della Sud Carolina Lindsey O. Graham, amico del presidente, lo ha incontrato e ai giornalisti ha raccontato che «non voleva avere un’altra Bengasi».
Come Ronald Reagan che nel 1986 ordinò un bombardamento in Libia, Trump ha mostrato i muscoli della potenza militare come deterrente. In questa sua decisione hanno pesato tre aspetti. Il primo: ha prevalso l’ala dura del Pentagono, dei falchi dell’amministrazione, pro Israele, la stessa che lo ha spinto a decisioni controverse come lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme, il riconoscimento della sovranità di Israele sul Golan dopo 52 anni di occupazione, l’iscrizione delle Guardie della Rivoluzione tra le organizzazioni terroristiche.
Il secondo motivo che ha influito sulla decisione di Trump, di natura elettorale, è legato all’economia e alla Borsa salite nei prime tre anni della sua presidenza ai massimi. Il presidente sa che nell’anno delle elezioni statisticamente l’economica rallenta perché il governo si ferma e le aziende ritardano le decisioni di investimento. I temporali attesi sui mercati non lo spaventano: ha un buona giustificazione.
L’ultimo motivo riguarda l’inchiesta sull’impeachment con il voto pendente al Senato. I due presidenti che prima di lui sono stati sottoposti a impeachment, Bill Clinton e Richard Nixon intrapresero decisioni audaci di politica estera per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica. Clinton avviò le campagne in Kosovo, bombardò Sudan e Iraq, Nixon lavorò al ritiro in Vietnam e alle aperture con la Cina. Con la tensione Usa-Iran alle stelle il processo di impeachment è destinato a passare in secondo piano. Il leader del Senat, il repubblicano Mitch McConnell, ha già annunciato che la prossima settimana farà slittare l’avvio del processo: l’aula sarà occupata a discutere della crisi iraniana.
Trump ieri su Twitter ha ringraziato i repubblicani che compatti sostengono la sua decisione. Divisi i democratici. Elizabeth Warren e Bernie Sanders hanno definito il blitz Usa «un assassinio». Più moderati i candidati John Biden, Pete Buttigieg e Amy Klobuchar che criticano il fatto che il Congresso non sia stato informato preventivamente. Le divisioni dem diventano terreno di campagna elettorale. Mike Bloomberg, salito al terzo posto nei sondaggi, ha condannato le parole di Sanders e Warren: «Sono parole oltraggiose, la mani di Soleimani erano sporche del sangue di migliaia di americani».