La Stampa, 5 gennaio 2020
Ritratto di Paolo Sorrentino
Nei primi giorni di gennaio del 2002 fui invitato a far parte del comitato di selezione del Tribeca Film Festival, creato da Martin Scorsese, Robert De Niro e Jane Rosenthal per aiutare l’area della città devastata dagli attentati dell’11 settembre. Negli ultimi giorni di selezione mi arrivò in visione un film di un regista esordiente, di cui non avevo mai sentito parlare: si intitolava L’uomo in più, ed era firmato da Paolo Sorrentino. Lo vidi con una buona dose di prevenzione, ma, sin dalle prime immagini, rimasi colpito da un talento strabordante e dall’ammirevole capacità di rielaborare la lezione dei grandi maestri con uno stile estremamente personale. Scoprii in quella occasione anche Toni Servillo, un attore meraviglioso di cui ero colpevolmente ignaro, e rimasi folgorato dall’energia di una voce forte e nuova, della quale il cinema italiano aveva un enorme bisogno. Raccomandai immediatamente il film, che venne accettato nella selezione ufficiale del Tribeca all’unanimità, l’unico tra le centinaia di iscritti al Festival.
Quando fu completata la visione di tutte le pellicole, Scorsese mi disse: «È un regista italiano, chiamalo tu a mio nome, e spiegagli che a breve arriverà un invito formale». Il caso volle che quel giorno fosse il 1° aprile, e quando telefonai dicendo «La sto chiamando a nome di Martin Scorsese», Paolo mi rispose «Non ho tempo da perdere per scherzi cretini» e riattaccò dopo avermi mandato a quel paese. Scorsese, che era accanto a me, mi chiese cosa avesse detto, e io, imbarazzato, inventai che c’erano problemi con la linea e non avevo sentito bene. Digitai di nuovo il numero e ripetei, con apprensione, «La sto chiamando a nome di Scorsese», aggiungendo, prima che potesse riattaccare, «che è qui davanti a me». Il silenzio dall’altra parte evidenziò che a questo punto era lui in imbarazzo, e riuscii a dire «Le faccio i complimenti, il suo film è stato selezionato per il Tribeca Film Festival». Poi mi accorsi che Scorsese mi guardava perplesso. Ma sorrise, e lo feci anch’io.
È nata così un’amicizia ormai ventennale, dalla quale mi sento profondamente arricchito, che col tempo si è ulteriormente impreziosita della frequentazione di amici comuni quali i fratelli Coen e Frances Mc Dormand, e, soprattutto, dal rapporto di affetto nato tra le nostre famiglie. Credo insomma di poter dire di conoscere Paolo prima che fosse Sorrentino e di averlo visto diventare gradualmente, e meritatamente, una star del cinema, rimanendo sempre sé stesso. Anche oggi, una serata con lui non è diversa da come era venti anni fa, e questo si deve, oltre a una saggezza ancestrale, mitigata da un’autoironia dissacrante, all’amore per valori che prescindono dalle mode e all’intelligenza vivace della moglie Daniela: un’ottima giornalista che è passata da poco tempo alla produzione cinematografica, riuscendo parallelamente a rappresentare il pilastro sul quale è stato edificato un focolare domestico di ammirevole solidità.
In quel primo viaggio a New York Paolo era arrivato con lei e almeno una decina di persone tra troupe e membri del cast, tra cui Toni Servillo e il produttore Nicola Giuliano. Tutte personalità di notevole talento, destinate a una grande carriera, eppure l’aria generale, a cominciare da Paolo, sottintendeva «Godiamocela, chissà se mai ci ricapiterà». Non voglio dire che non credessero nelle loro possibilità, ma l’approccio oscillava tra una sana eccitazione per un evento nuovo e inaspettato e un saggio disincanto: ripensai a quell’atteggiamento quando vidi salire proprio loro tre a ritirare l’Oscar per la Grande bellezza, con Paolo che ringraziava Federico Fellini, i Talking Heads, Martin Scorsese e Maradona, e citava poi Daniela, la «sua personale grande bellezza».
In quei giorni del Tribeca il gruppo aveva ogni motivo per essere eccitato: il governatore dello Stato di New York Pataki aveva erogato finanziamenti sontuosi per il Festival, che grazie a molti sponsor privati e all’intervento in prima persona di Scorsese e De Niro aveva generato un parterre di stelle impressionante, non solo del mondo del cinema: tra le tante chicche del party inaugurale vedemmo Nelson Mandela che ballava con soave spensieratezza, mentre Bill Clinton chiacchierava con Billy Joel, George Lucas e Hugh Grant. Paolo, che aveva una capigliatura molto più lunga e disordinata di oggi, era sinceramente divertito, ma rimaneva con i piedi per terra: fu in quella occasione che mi disse che le due vicende intrecciate dell’Uomo in più rappresentano altrettante proiezioni di quello che avrebbe realmente voluto fare, il calciatore e il performer. Poi spiegò che la tragica evoluzione narrativa del primo personaggio è ispirata alla vita di Agostino Di Bartolomei, mentre la seconda ricalca quella di Franco Califano.
Era impossibile non rimanere conquistati dall’umorismo sornione, il gusto del linguaggio ricercato e l’intelligenza mai conformista, ma più di ogni altra cosa mi rimase impresso il carattere del leader: quel carisma naturale che non si può in alcun modo imparare. Era però altrettanto impossibile non scorgere in lui un fondo malinconico, specie quando veniva esorcizzato con il disincanto. Dopo il trionfo della Grande bellezza gli chiesi come mai i suoi personaggi fossero sempre persone mature, e che importanza bisognasse attribuire alla battuta del protagonista Jep Gambardella, che risponde «L’odore delle case dei vecchi» a chi gli chiede cosa ami di più nella vita. Paolo mi raccontò in quell’occasione dei genitori, morti insieme per l’esalazione di un gas tossico proveniente da una stufa difettosa quando lui era ancora adolescente. Compresi allora quanto fosse impossibile lenire del tutto quel dolore, e che non esiste passaggio della sua arte che non conviva inevitabilmente con quel trauma.
Uno degli elementi più significativi della sua espressione cinematografica consiste nel modo in cui è riuscito ad armonizzare il dolore con il suo magnifico senso dell’umorismo, grazie a un talento innato per l’osservazione di costume, che non si trasforma mai in sterile sociologia. Paolo detesta fortemente il conformismo e lo snobismo, ed è esemplare la scena in cui Gambardella demolisce una ricca radical chic che ammanta la sua inconsistenza culturale con arroganti pretese intellettuali. Un altro suo talento è quello di cogliere al volo una battuta che rappresenta un intero mondo: qualche anno fa venne invitato da una persona terribilmente snob, la quale sostenne nel corso della cena che «l’unica scena di jazz eccitante è quella etiope»: la battuta finì nella Grande bellezza, e oggi Paolo racconta divertito che in occasione di una proiezione a Addis Abeba ci fu chi applaudì con orgoglio.
Pochi, non solo in Italia, sanno scrivere e comporre le immagini con uguale maestria, e ciò è evidente anche nei casi meno felici del suo cinema, quando il formidabile talento rischia il virtuosismo. Ama sperimentare, non solo con le immagini: i suoi libri, fortunatissimi, rispondono alla necessità di esprimersi artisticamente anche attraverso altri mezzi, ma pure alla consueta saggezza ancestrale che gli suggerisce di aprire diverse possibilità per il futuro.
Analizzando i suoi film appare evidente che Paolo senta il fascino della personalità carismatica, specie quando esercita il potere in modo opaco o attraverso logiche che sfuggono alla via maestra del mondo: per il primo caso basta pensare al Divo, per il secondo al Giovane Papa, del quale ha completato la seconda serie. Questo fascino comporta prese di posizioni etiche ancora prima che estetiche, e ciò spiazza tutti coloro che si adagiano su convinzioni precostituite e ideologiche. Paradossalmente Paolo è rivoluzionario soprattutto quando celebra la tradizione, e questo lo vedi anche dal modo con cui ti riceve a casa, e ama parlare delle cose più inaspettate, raramente di cinema.
Non c’è volta che io non cerchi di scoprire qualcosa dei film che non ha realizzato: un adattamento da Ferito a morte di Raffaele La Capria, e un film sui cantanti neomelodici napoletani. In questo periodo si è trasferito con la famiglia negli Stati Uniti, dove sta preparando un film su una donna coinvolta con la mafia. Quando ne parla oscilla sempre tra i due poli opposti dell’eccitazione e il disincanto, e riprende quasi immediatamente a parlare della vita quotidiana, «quella vera». Soltanto una volta l’ho visto parlare di cinema senza oscillare tra quei due poli: mi raccontava di un film che prima o poi farà, sulla sua Napoli.