la Repubblica, 5 gennaio 2020
L’utopia di Vittorio Fusari
Finalmente arrivò, finalmente parlò Zlatanhustra. E parlò bene: non sono qui per fare la mascotte, mi mancavano l’adrenalina e l’odore dell’erba, a 38 anni non posso essere come a 28, ma posso correre meno e tirare da più lontano, vengo per aiutare a crescere, i fischi mi caricano, arrivo più cattivo di prima, non tutti sanno soffrire. Queste ultime due affermazioni fanno pensare che potrebbe anche attaccare al muro qualche compagno in spogliatoio, se non ci mette lo stesso impegno che è abituato a metterci lui. Ibrahimovic ha parlato da capo tribù, strana l’assenza alla presentazione del presidente Scaroni e dell’ad Gazidis. Dovrebbe giocare già domani contro la Samp, a San Siro ci saranno più di 60 mila spettatori. È il primo risultato del colpo milanista. Quanto colpo, si vedrà. Certamente, in queste condizioni, un giocatore con la personalità e l’esperienza di Ibrahimovic può fare solo comodo.
Da un milanista di ritorno a un ex milanista: Vikash Dhorasoo, una vaga somiglianza con Pierfrancesco Favino. Su Sportweek un lungo servizio parla della sua candidatura a sindaco di Parigi. Le elezioni sono in marzo. Già fa un certo effetto sentire un calciatore non italiano parlare di Pasolini, se poi si chiedono altri maestri di pensiero per lui ci sono Maradona, Che Guevara, l’ex presidente dell’Uruguay Pepe Mujica, il sociologo Jean Ziegler, il filosofo Michel Serres, la scrittrice Virginie Despentes. Credo di aver già scritto che aveva avuto il suo momento di celebrità, a Milanello, perché era l’unico a leggere Repubblica, seppure in privato. «Galliani sapeva che ero di sinistra e mi lasciava tranquillo. Mi fecero solo capire che leggere Repubblica davanti a tutti magari non era ben visto». Costacurta fu quello che glielo fece capire. E lui lo ricorda con una certa simpatia: «Persona di centrodestra ma umanista, elegante». E Berlusconi? «Berlusconi rappresenta tutto ciò che combatto. Però mi spiace che non sia più al Milan, perché amava il suo club. Ma è ormai al passo coi tempi: tutti i grandi club, dal City al Psg, appartengono a fondi, che puntano solo a fare business. Ai tifosi del Milan dico: ribellatevi e tenetevi stretto San Siro». Dhorasoo è candidato con una lista di estrema sinistra: “Décidons Paris” (Decidiamo Parigi). Dubito che possa venire eletto un candidato che si fa fotografare sdraiato su un biliardo con un maglione slabbrato più grande di due taglie, però resta un caso di calciatore che guarda oltre il campo. Già aveva accettato, fra mille battute pesanti, di fare da padrino del club Paris Football Gay, dell’Ong Oxfam contro le disuguaglianze. E a Parigi si è mosso partendo dal basso. «A Montmartre, dove abito, i residenti agiati hanno chiesto di chiudere i giardinetti dove giocavano ragazzi di origine africana. Hanno raccolto mille firme. Noi, con undicimila, li abbiamo bloccati». Programma: «Ormai per vivere a Parigi devi essere ricco. Voglio restituire Parigi a tutti i parigini». Non sfugge a domande scomode: «Sono ricco, non subisco più discriminazioni perché i soldi mi hanno sbiancato, ma ho fatto mia la frase della scrittrice Toni Morrison che diceva: “La libertà serve a liberare qualcun altro”. E allora voglio battermi per chi sta peggio di me». Sul razzismo: «Sono di origini indo-mauriziane, cos’è il razzismo l’ho provato sulla mia pelle. Ma non si può, nel calcio, pretendere di risolvere il problema del razzismo se a decidere sono solo bianchi. Dei 120 membri del Comitato di organizzazione delle Olimpiadi di Parigi 2024 c’è solo un nero, quando invece a vincere le medaglie sono soprattutto neri e maghrebini. Così non va bene». È stato anche in una città di sinistra, Livorno: «Nel calcio la sinistra diventa inevitabilmente destra, perché i soldi sono al centro del sistema. E infatti a Livorno ero pagato solo se giocavo. Non ho mai giocato. Bisogna essere di sinistra con i fatti, non a parole. E vale anche in politica».
Normalmente sono quasi sempre d’accordo con quello che scrive Sebastiano Vernazza su Sportweek. Quindi posso permettermi di dire: ieri no, almeno nell’ultima frase. Vernazza riprende la questione del virtual coach e si chiede: «E se un giorno le partite fossero decise dall’intelligenza artificiale? È il futuro, non possiamo farci niente». No, invece possiamo e dobbiamo.
L’ angolo della poesia è occupato dal ricordo di un amico. Uno chef, ma più ancora un amico. Ieri mattina nel Duomo di Iseo non entrava uno spillo: a salutare Vittorio Fusari c’era non un solo paese ma una zona intera, la Franciacorta, in cui negli Anni 80 Vittorio aveva trasformato Il Volto, un’autentica osteria, in un autentico e stellato ristorante, dove i pensionati potevano giocare a carte e bere un bicchiere fino all’ora di cena. Studente (di filosofia) e lavoratore (nelle ferrovie). Utopista, sognatore, ma non di quei sognatori passivi. Parlava già allora di cibi biologici, di felicità che in cucina deve passare solo per la buona salute. Gualtiero Marchesi lo considerava, tra i suoi allievi, uno dei più dotati. Lo chef è un mestiere che richiede un certo ego, da ben prima che una miriade di programmi tv (pornografia gastronomica, secondo Carlin Petrini), li trasformasse in pupazzoni eterodiretti. Vittorio era invece per il lavoro di gruppo, se c’era da dare una mano a un piccolo produttore di vini o di formaggi artigianali non si tirava indietro. Cercava soluzioni semplici ma geniali accostando due ingredienti opposti: l’umile patata e il magno caviale (sempre bresciano). Sempre pronto a lunghe discussioni, come quelle notturne con padre Turoldo, che mangiava solo prugne cotte. Io no, e vi risparmio i dettagli. Vittorio ha scritto poche righe prima di morire: «Vi lascio le mie ricette: riutilizzatele, copiatele, se credete che possano contribuire a un mondo migliore». Quello che si