la Repubblica, 5 gennaio 2020
Acquisti pubblici, Consip fa risparmiare solo 300 milioni
Vi ricordate quando lo Stato compratore aveva cominciato a centralizzare i propri acquisti per risparmiare? Vi ricordate quando la Consip non era conosciuta solo come una intricata vicenda giudiziaria ma come il primo tentativo di razionalizzare la spesa per farmaci e telefoni, scrivanie e stampanti, elettricità e carburanti? Bene, quella che sembrava l’arma risolutiva della spending review, la misura capace di recuperare 3 miliardi l’anno canalizzando in poche centrali di acquisto i rivoli finanziari di 35 mila amministrazioni lasciate a se stesse è misteriosamente sparita o quasi dai radar della politica. Solo una norma aggiunta in extremis alla legge di bilancio 2020 prevede che la spesa dei ministeri non possa eccedere la media degli ultimi tre anni. Ma non dice come, con quali strumenti e perché sono escluse tutte le amministrazioni locali. Eppure, la razionalizzazione degli acquisti, ancora troppo cari soprattutto a livello locale, sarebbe la sola valida alternativa agli aumenti fiscali ai quali il governo è dovuto ricorrere per trovare le risorse della manovra. Perché il governo sembra aver rinunciato ai risparmi potenziali di questa misura? Risparmi, in realtà, tutt’altro che impossibili. Se si legge l’ultima rilevazione Mef-Istat sugli acquisti centralizzati, scopriamo che comprare attraverso le convenzioni della Consip (la centrale acquisti del Tesoro), piuttosto che al di fuori di esse, consente risparmi a due cifre: fino al 30% sulla telefonia mobile, al 57% sulle stampanti, al 63% su aghi e siringhe. È dimostrato che in questo modo si risparmia su tre fronti: sui costi di gestione delle gare stesse, sui tempi di approvvigionamento e sulle economie di scala.
Il problema sta nel grado di utilizzo di questi accordi. Rispetto al perimetro di spesa su cui la Consip può oggi intervenire, quasi 50 miliardi di euro, gli acquisti che poi passano effettivamente attraverso le sue convenzioni e i suoi accordi quadro non superano i4,5 miliardi, appena il 9%. È vero che, oltre alle convenzioni, Consip mette a disposizione delle varie amministrazioni pubbliche anche un mercato elettronico ad hoc, una specie di eBay che consente loro, per acquisti di ridotta entità, di contattare direttamente i fornitori; ed è vero che su questo mercato passano ogni anno altri 8,6 miliardi, portando il totale intermediato da Consip a 13,1 miliardi. Ma in questo caso, i prezzi, in media, non sono affatto più bassi di quelli che gli enti pubblici pagano agendo per proprio conto. Ad esempio, una sedia girevole da ufficio comprata sul mercato elettronico costa da 114 a 125 euro (Iva esclusa), 112 euro se invece la si acquista fuori. Una scrivania può arrivare a costare il 20% in più all’interno del mercato messo a disposizione da Consip. E una risma di carta l’8,7% in più. Il vero risparmio si verifica solo quando è la stessa Consip a negoziare i prezzi, ossia solo per il 9% della sua spesa potenziale. Si potrebbe obiettare che oltre alla Consip, ci sono altre 31 centrali di acquisti: 19 regionali, 4 provinciali e 8 di altrettante città metropolitane. Dunque la spesa centralizzata è probabilmente maggiore di quella che abbiamo visto finora. Di quanto? Non possiamo saperlo: quel tipo di spesa non è mai stata monitorata. Ogni centrale tiene i propri dati per sé, senza dover rendere conto a nessuno. Il risultato è che ci dobbiamo accontentare dei dati Consip, i quali ci dicono che, nonostante la crescita della spesa intermediata (quest’anno 13,1 miliardi, tra convenzioni, accordi e mercato elettrico, contro i 3,4 del 2012), essa è ancora una piccola parte di quella che potrebbe essere centralizzata. L’obbligo di rivolgersi alle centrali di acquisto, infatti, esiste solo per alcune categorie di beni e servizi (perlopiù sanitari) e, grazie a una misura del passato governo giallo-verde, è stato sospeso fino a tutto il 2020 per i Comuni non capoluogo. La legge, tuttavia, imporrebbe anche alle amministrazioni che negoziano autonomamente i propri acquisti di adeguarsi ai prezzi di riferimento della Consip. Ma questo avviene solo in pochi casi, come dimostrano le forti differenze di prezzo rilevate dall’Istat tra chi centralizza gli acquisti e chi agisce in autonomia. Quel divario non dovrebbe più esistere. In realtà, invece, la maggior parte degli enti pubblici va per la sua strada, e non c’è nessuno che controlla chi non si adegua. Eppure i margini per allargare la platea degli acquisti da mettere sotto controllo, esistono e sono ampi: c’è tanta strada da fare prima di raggiungerei 50 miliardi di spesa su cui la Consip potrebbe già intervenire. Figuriamoci quanto può essere difficile andare oltre e intervenire sugli altri 45 miliardi di acquisti di beni e servizi(in totale sono 95 miliardi) che oggi sfuggono alle competenze della società del Tesoro: spese militari, prestazioni professionali, servizi di trasporto pubblico locale, spese per le società partecipate. In questo campo, nessun governo ha mai tentato una qualche forma di razionalizzazione. E stiamo escludendo una terza fetta di spese a prezzi regolati (anch’essa pari a circa 45 miliardi) destinata alla farmaceutica, all’assistenza convenzionata e ai compensi per i medici di base. Insomma, guardando a cosa si è fatto finora, è come se si fosse creato un piccolo recinto dentro il quale le cose sembrano funzionare molto bene, lasciando però all’esterno immense praterie incontrollate. Le resistenze delle migliaia di enti locali, la mancanza di controlli, la valanga di ricorsi contro la centralizzazione, la stessa retromarcia del governo giallo-verde che ha esentato i Comuni non capoluogo: tutto questo contribuisce a lasciare a se stesse vastissime praterie di spesa pubblica. Così alla fine i risparmi restano modesti. Si parla di 3 miliardi l’anno, ma sono solo potenziali: è quel che si potrebbe recuperare se tutti e 50 i miliardi su cui può intervenire la Consip, fossero effettivamente centralizzati. Ma siccome le spese Consip che riescono a strappare prezzi più bassi grazie alle convenzioni sono solo 4,5 miliardi, basta una semplice proporzione per concludere che i risparmi effettivi non arrivano neppure a 300 milioni.