la Repubblica, 5 gennaio 2020
L’età di Ibrahimovic
Rimettete indietro gli orologi, ma non di un’ora, di dieci anni: non sta per tornare l’ora legale, riscocca invece quella di Ibra. Domani pomeriggio ricompare a San Siro, e in Italia l’evento ha avuto meno risalto soltanto del senso del film di Zalone, ma assai più del senso della fine di Soleimani. In realtà la cosa non dice molto su Zlatan Ibrahimovic, ma moltissimo su chi l’ha rivoluto, chi l’aspetta e chi ne parla in modo incessante.
Lui continua a recitare la sua parte, dopo aver calcato altri teatri. L’America era stata un po’ come l’Inghilterra di Stan Laurel e Oliver Hardy a fine carriera, quando misero il loro nome sui cartelloni e il pubblico alla cassa chiedeva come si chiamassero gli attori che ne recitavano la parte. A quel punto non resta che chiudere o tornare indietro, se si trova qualcuno che ti richiami. Ibra lo ha trovato. Addirittura, poteva scegliere. È, inevitabilmente, andato dove lo portava Raiola. Il Bologna sarebbe stata un’opzione sentimentale, un regalo di amicizia tra uomini duri e impuri fatto a Sinisa Mihajlovic. Ma in questa stagione nessuna storia può essere superiore a quella dell’allenatore che combatte la malattia e Ibra è troppo monumentale per l’ombra, Bologna non abbastanza grande per due guerrieri. Il Monza sarebbe stata una scelta romantica e cinematografica, l’ultimo omaggio a Berlusconi e Galliani, un magico momento Goodfellas : De Niro che torna, si siede al tavolo con Joe Pesci, Ray Liotta e rimettono insieme la banda. Il Milan è invece la cover di un vecchio successo, reinterpretata dallo stesso che l’aveva cantato dieci anni prima. Raiola dice che sarà l’ultima tournée dei Queen e può darsi, ma il futuro prossimo è sempre un bivio e sull’altra strada c’è Adriano Pappalardo, rilanciato dall’Isola dei Famosi, che prenota un palasport per il concerto del ritorno, ma trova tribune vuote e si eclissa litigando con Antonio Zequila (Ibra in allenamento venne alle mani con Oguchi Onyewu). In effetti saremmo tutti meravigliati ed entusiasti se il nonno risorgesse, ma se non ci portasse un bel regalo dall’aldilà, dopo un paio di cene insieme ci (e forse gli) chiederemmo se era proprio il caso di rifarsi vivo.
Si tratta, comunque, di un post scriptum, una pagina di ringraziamenti a romanzo finito. La vera domanda è: perché abbiamo tanta ansia di leggerla? Perché, prima ancora, ci hanno tenuto tanto a stamparla? Certo, qualcosa ha a che fare con l’ondivaga gestione del Milan. Ci sono bambini a zig-zag, scriveva David Grossman: si chiamano Maldini e Boban. Incuriosiscono di più i bambini anagrafici, quelli nati dopo la partenza di Ibra I, per i quali il calcio è uno sport dove vince la Juventus e a cui i genitori non sapevano più come spiegare che un altro mondo è possibile, tanto che è addirittura esistito. Un attimo prima della disperazione hanno trovato una diapositiva del passato, l’hanno fotografata con il cellulare, ingrandita allargandola con le dita e raccontato che questo era l’avvenire. C’è chi prende lo svedese nuovo (Kulusevski) e chi quello usato, tanto alla fine devi comunque montarli tutti e due e la brugola lavora di fantasia, allude a una nuova alba o a un crepuscolo che sfolgora senza che mai arrivi la notte. In una iperbole che l’altezza del personaggio consente, Ibra II rappresenta il tramonto dell’Occidente profetizzato dal filosofo Spengler. Andiamo ad assegnare la Supercoppa in Arabia Saudita, il Mondiale in Qatar, mandiamo in Cina i rottamati, ma la prima marcia indietro è un segnale che il gioco sta per cambiare verso. Il tempo non procede in circolo, chi corre non ricorre ma avanza e si lascia gli altri alle spalle. Ibra è una nostalgia incarnata per deficit d’immaginazione, un casting televisivo per rassicurare il pubblico attratto dalla pubblicità dei divani, una favola per tutti gli altri. C’era una volta a Milano. Lui cerca di aggiornarla, ma ogni variazione risulta più buffa che credibile. Non sarà arrogante, assicura, mentre detta i tempi del suo re-ingresso in campo. È come se Matteo Renzi ridiventasse premier nel 2026, ci sarebbe da star sereni.
Capita, nella storia, che si richiami un condottiero per riscriverla con le stesse parole. Juan Domingo Perón tornò dopo diciotto anni, per l’esultanza del popolo e dei media. Senza Evita né un’idea chiara del domani, non fu un trionfo e il tempo, il solito assassino, tagliò corta la replica.
Non è che non sappiamo invecchiare con i nostri idoli. La linearità salva il pe rcorso: possiamo anche concederci l’ultimo giro di pista con Valentino Rossi mentre le edicole vendono i suoi caschi in scala 1:5 e ci chiediamo chi mai li comprerà (probabilmente quelli che acquistano l’indimenticabile ciclomotore Ciao in scala 1.3): la memoria è un bonsai al contrario, qualunque piantina del passato proietta ombre da quercia. Quella di Ibra è una riapparizione da un armadio chiuso, può essere Houdini, e giù applausi, o stiamo solo per rimetterci l’abito del matrimonio pieno di tarme. Non è raro che dopo un divorzio chi si è separato vada a ricercare la fiamma di gioventù. È un modo per dirsi che la storia non si è mai interrotta, che lo sbaglio è stata solo una pausa pubblicitaria, ma anche per confondere l’amore con l’autoassoluzione. Forse siamo tutti Maldini e Boban, cresciuti senza il mirino nitido, scendiamo slalomando, lasciandoci porte alle spalle, ma se non guardiamo avanti rischiamo di inforcare. Ibra può essere un traguardo? O un palo di quelli grossi?