la Repubblica, 5 gennaio 2020
Iran partner economico dell’Italia
Italia regolarmente tagliata fuori dalle interlocuzioni tra grandi Paesi (compreso il giro di telefonate diplomatiche del sottosegretario di Stato Usa, Pompeo, per il raid contro il comandante Soleimani) ma, proprio perché politicamente defilata, sempre nel cuore degli interscambi economici con Teheran. Fin dal 1957 quando l’Eni di Mattei siglò un primo, storico accordo con la Nioc (National Iranian Oil Company) per scalzare le “sette sorelle” daigiacimenti iraniani. Da allora i legami economici tra Roma e Teheran non si sono mai interrotti, nonostante appunto l’esclusione del nostro Paese da passaggi decisivi come il vertice di Guadalupe (1979) alla vigilia della Rivoluzione islamica; il negoziato di Francia, Regno Unito e Germania sul nucleare iraniano (2003); e, dieci anni dopo, il trattato Jcopa. Anzi, con il viaggio romano del presidente Rohani del 2015 è iniziato un percorso che ha portato l’Italia ai vertici dell’interscambio con l’Iran: 5,1 miliardi di euro nel 2017 (primo partner commerciale Ue di Teheran), 4,6 miliardi l’anno successivo, fino alla frenata del 2019 per i dazi Usa e il surriscaldamento geopolitico in Medio Oriente. In testa alla graduatoria dei prodotti italiani esportati in Iran, i macchinari, i medicinali e i prodotti chimici. I venti di guerra scuotono, ovviamente, anche gli interessi economici in Iraq dove, tra l’altro, il Gruppo Trevi ha fatto appena in tempo a completare i lavori di consolidamento della diga di Mosul. Presenti sul territorio Eni, Bonatti-Renco, Nuovo Pignone e decine di imprese, mentre l’interscambio nel 2018 ha sfiorato i 3 miliardi di euro. Sono soprattutto gli effetti sul settore petrolifero a far tremare l’Italia, visto che nel 2019 l’Iraq è stato il nostro primo fornitore di greggio con 12 milioni di tonnellate pari al 20% dei consumi totali (l’Iran nel 2018 era al terzo posto con una quota intorno al 10%). Tutto gravita intorno allo stretto di Hormuz, un budello di 34 chilometri tra Iran e Oman, attraverso il quale le petroliere trasportano greggio pari a un terzo del volume di scambi del mercato mondiale. Eventuali attacchi iraniani nello stretto (ma anche ai pozzi dell’Arabia Saudita, quarto fornitore di petrolio all’Italia), non intaccherebbero più di tanto gli interessi degli Stati Uniti, ormai a un passo dall’autosufficienza petrolifera (grazie soprattutto al fracking ), ma peserebbero sul resto dell’Occidente. Come spiega Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, fino ad oggi le tensioni mediorientali, anche nei momenti di crisi più acuta, sono state ammortizzate dall’abbondanza di offerta di oro nero e dal rallentamento della domanda per le miti temperature invernali. Il facile parallelo tra gli assedi delle ambasciate Usa in Iran (1979) e a Bagdad (2019) suscita però una minacciosa suggestione, perché proprio dall’assalto di quaranta anni fa a Teheran scaturì il secondo shock petrolifero mondiale.