la Repubblica, 5 gennaio 2020
Quali rischi per i militari italiani?
C’è una sottile linea blu che oggi è diventata il posto più caldo del pianeta. Da una parte Israele, dall’altra Hezbollah. In mezzo più di mille soldati italiani con la bandiera dell’Onu, appostati sulle colline lungo il corso del fiume Litani. Il movimento sciita libanese è il figlio prediletto di Qassem Soleimani: lo ha fatto nascere e crescere, fino a renderlo il nemico più temuto da Israele. Due giorni fa Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, ha promesso che vendicarlo «sarà responsabilità di tutti i combattenti». Mentre il sito web dell’organizzazione ha usato parole inequivocabili: «È guerra!». Ora tocca ai nostri militari, in gran parte Granatieri di Sardegna provenienti da Roma, cercare di arginare la tempesta annunciata e il pericolo concreto che Hezbollah scateni la rappresaglia contro Israele. Sostanzialmente da soli, perché l’Italia pare avere dimenticato quel contingente strategico per la pace nel mondo. Nel 2006 il premier Romano Prodi e il ministro Massimo D’Alema erano riusciti a renderci protagonisti, imponendo la nostra presenza a garanzia della tregua. Ma ormai non abbiamo più una politica estera e siamo esclusi dai tavoli chiave, anche quando sono in gioco interessi vitali. E rischiamo di pagare un prezzo altissimo.Questa crisi infatti potrebbe esporci a ripercussioni gravi, facendo ricadere su di noi un peso drammatico per la morte di Soleimani. Oltre agli uomini in Libano, circa 150 carabinieri e incursori sono asserragliati in una caserma alle porte di Bagdad. Erano lì per addestrare le forze irachene destinate a combattere l’Isis; si ritrovano adesso in un Paese infuriato e ostile. Il vertice americano della missione ha sospeso le attività e tutti si sono barricati nella struttura, pronti a correre nei rifugi a prova di razzo. Pericoli, seppur più ridotti, per gli 800 soldati dell’Ariete di Pordenone che presidiano la base afghana di Herat e hanno la responsabilità della regione al confine con l’Iran. «Abbiamo innalzato la sicurezza, ma le missioni proseguono», ha detto ieri il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Il problema è che, in Iraq come in Afghanistan, gli italiani operano sotto comando americano, fianco a fianco con i militari statunitensi: la furia della vendetta potrebbe non distinguere le uniformi.
Allo stesso tempo, però, i venti di guerra offrono una chance al governo Conte. Gli Stati Uniti non possono affrontare la prospettiva di un conflitto senza contare sulle basi della Penisola, le uniche sicure del Mediterraneo. Da tre giorni dozzine di aerei americani le sfruttano per trasferire truppe verso il fronte della crisi: ad Aviano e a Sigonella c’è un via vai ininterrotto di atterraggi e decolli. A Vicenza la 173ma aerobrigata, la “punta di lancia” per le operazioni in Medio Oriente, è stata mobilitata per andare in Libano. A Napoli il quartier generale della VI flotta è diventato la prima linea dell’emergenza: la mini-portaerei Bataan carica di marines fa rotta verso est; sottomarini e caccia si preparano a intervenire con i loro missili cruise. Se le cose dovessero peg giorare, sarà poi inevitabile ricorrere alle scorte di Camp Darby. Nella pineta livornese infatti c’è il più grande deposito mondiale di armi e proiettili americani, con una quantità colossale di equipaggiamenti bellici.
Queste strutture sono potenziali bersagli per gli attentati della rete di Soleimani, che ha dimostrato negli anni di sapere agire ovunque. L’altro lato della medaglia è che le basi americane possono essere uno strumento di politica estera per riequilibrare le relazioni con Washington, che in queste ore ha completamente ignorato Roma. Una leva raramente impugnata dai governi italiani, tanto da rendere storica l’eccezione di Bettino Craxi nella notte di Sigonella del 1985 o il no di Giulio Andreotti all’uso degli aeroporti per il raid contro Gheddafi dell’anno successivo. Episodi remoti nel tempo, quando la Prima Repubblica – come ha ricordato ieri D’Alema su questo giornale – aveva una strategia “intelligente” nei confronti del mondo arabo. Oggi però c’è la necessità di bilanciare in modo diverso i rapporti con Donald Trump e tentare di non essere solo succubi della crisi iraniana. Secondo diversi analisti, Erdogan si è già mosso e sta paventando un prezzo molto alto per concedere agli Usa l’impiego della base turca di Incirlik, la più vicina all’Iran. A spese dell’Italia, perché la contropartita sul tavolo potrebbe essere il via libera americano allo sbarco a Tripoli. Ma il Sultano ha una politica estera chiara e spregiudicata, mentre noi stiamo a guardare.