La Lettura, 5 gennaio 2020
Il primo Goldoni che Goldoni nascose
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I principi di Sassonia amavano l’Italia. Ai confini della civiltà come si sentivano, ancora stremati dal lascito della guerra dei Trent’anni, nel Settecento vagheggiavano il fervore culturale della «bella penisola», capivano – spesso parlavano – la lingua di Dante e coltivavano un mito sopra tutti: Venezia. Per questo accoglievano con entusiasmo (e buone remunerazioni) le compagnie teatrali che dalla Laguna si spingevano nell’Europa del Nord. E per questo nella Sächsische Landesbibliothek di Dresda è stato trovato un piccolo manoscritto che rappresenta una grande scoperta: un copione della commedia Il Cavaliere e la Dama di Carlo Goldoni. Diverso dalla versione a stampa giunta fino a noi. Con Pantalone e Arlecchino al posto di Anselmo e Pasquino, che invece compaiono nella stesura definitiva. Con le maschere della Commedia dell’Arte e molti spazi lasciati all’improvvisazione. Goldoni prima di diventare Goldoni, il grande riformatore del teatro.
È stato Riccardo Drusi, docente di Letteratura italiana presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, a individuare il manoscritto inedito «che rispecchia, con ogni probabilità, la forma più vicina al testo inizialmente concepito per la rappresentazione». Il docente procede per tappe nello spiegare il senso di questo ritrovamento. Primo, non si tratta di un autografo: era lo scrivano di compagnia che si occupava di copiare l’opera e distribuire le parti agli attori. Secondo: come si vede nell’immagine centrale a destra, il documento è datato 25 novembre 1752, Santa Caterina, giorno di apertura della stagione teatrale a Venezia. Proprio nello stesso anno Goldoni porta alle stampe, a Venezia, la versione «riformata» del Cavaliere e la Dama, in cui l’autore si premura di dichiarare che, rispetto all’originale (la prima assoluta va in scena a Verona nel 1749), ha sostituito le maschere dialettali con altrettanti personaggi che parlano «la toscana favella».
Ricapitolando: Il Cavaliere e la Dama debutta nel 1749 in una forma «ibrida» – con le maschere e una certa dose di improvvisazione – di cui finora non si sospettava essere sopravvissuta alcuna traccia. Tre anni dopo l’opera viene stampata in una versione nuova e, nelle iniziali intenzioni di Goldoni, definitiva. Dunque adesso spostiamoci a Dresda.
Sulle rive dell’Elba le compagnie teatrali veneziane sono di casa. Costrette a lunghe pause dal severo calendario liturgico della Serenissima, si dirigono a Nord per esibirsi liberamente. E a Dresda la corte impazzisce per loro. Nei teatri di Augusto II e Augusto III, principi elettori di Sassonia, gli attori sono applauditi come star e per gli aristocratici spettatori vengono realizzati piccoli fascicoli, «materiale di sala», con brevi cenni sull’ambientazione dell’opera e sui personaggi. «In questo contesto si può capire – precisa Drusi a “la Lettura” – perché la copertina del manoscritto (foto in alto) presenti una calligrafia diversa rispetto a quella di chi ha compilato il copione, e soprattutto perché il titolo sia La Dama e il Cavaglier: alla protezione in cartone probabilmente “veneziana” e senza intestazione, a Dresda era stato aggiunto il titolo. Modificato, forse per galanteria, con la dama prima del cavaliere, in ordine inverso rispetto al frontespizio, nella pagina successiva». Altro tassello di questo mosaico: Goldoni in quegli anni è impegnato come «poeta» della compagnia di Girolamo Medebach (per lui scriverà anche La locandiera) il cui primo attore, Cesare Darbes, celebre Pantalone, nel 1749 recita al servizio dell’elettore di Sassonia.
La redazione di Dresda vede dunque recitare Pantalone, Arlecchino, Brighella (come si vede nell’ultima foto in basso), ciascuno nel suo dialetto, «dimostrazione di una fase più remota della scrittura goldoniana che successivamente l’autore nasconde in nome della riforma teatrale in cui i dialoghi venivano scritti per intero e le maschere abolite». A tali convinzioni Goldoni approda tuttavia progressivamente e comunque dopo una serie di esperienze di scrittura «all’antica».
«È per lui un passato imbarazzante – continua Drusi – perché incompatibile con il teatro riformato e Goldoni cerca in ogni modo di cancellarlo: quando si tratta di dare alle stampe le proprie opere, le commedie scritte secondo i vecchi criteri vengono sottoposte a un’intensa rielaborazione. Per questo motivo, della stagione più remota di Goldoni autore, quella in cui egli ancora scrive abbozzi di scene affidati all’inventiva degli attori e le maschere predominano, pareva perduta qualsiasi testimonianza. Fino a oggi». Fino a quando Drusi non si è messo a cercare nel catalogo online della biblioteca tedesca, trovando «un Goldoni più genuino e scenico, più vicino a quello che effettivamente veniva rappresentato negli anni Quaranta del Settecento». Sembra una scoperta nata dalla pura casualità, ma sono anni che Drusi studia la materia e cerca il «primo Goldoni» nelle varie città europee in cui facevano tappa le tournée teatrali, «tenendo conto, poi, che fino alla caduta del Muro di Berlino, l’accesso alla Sächsische Landesbibliothek era tutt’altro che agevole».
Ma perché a Dresda circolavano copioni scritti a mano quando era già disponibile la copia definitiva a stampa? «Per un’evidente lentezza nelle comunicazioni, perché le compagnie veneziane all’estero erano libere da vincoli».
Drusi intende continuare a studiare il manoscritto, anche in vista di un’edizione critica. L’entusiasmo è evidente: «Non avrei mai pensato di trovare le tracce della fase in cui Goldoni scrive ancora per la scena, non per le stampe. Finora conoscevamo Il Cavaliere e la Dama nella versione diffusa dal tipografo Giuseppe Bettinelli e nelle successive, compresa quella rivista da Goldoni e ristampata da Giambattista Pasquali negli anni Sessanta del Settecento». Ed è proprio nella lettera preparatoria delle edizioni a stampa che Goldoni scrive: «Nel primo e secondo anno di tale mio esercizio non ho azzardata Commedia alcuna senza le maschere, ma queste bensì a poco per volta sono andato rendendo men necessarie, facendo vedere al popolo, e toccar con mano, che si poteva ridere senza di loro, e che anzi quella specie di riso, che viene dal frizzo nobile e spiritoso, è quella ch’è propria degli uomini di giudizio».
Drusi aggiunge: «Sì, lui ammette di avere dato via alla sua carriera seguendo i dettami della Commedia dell’Arte, ma allo stesso modo si preoccupa di far sparire il vecchio materiale».
Il Cavaliere e la Dama (o viceversa) fu un successo a Dresda. La commedia ambientata a Napoli che critica il malcostume dei cicisbei e vede trionfare l’amore del cavalier servente Rodrigo per Eleonora, fu rappresentata in Sassonia nel Carnevale del 1753. Anche nel materiale di sala distribuito al pubblico e conservato nella Sächsische Landesbibliothek i personaggi continuano a essere Pantalone e Arlecchino, il titolo resta La Dama e il Cavaglier. Poco importava. «Per Goldoni – conclude Drusi – la Sassonia è la periferia del mondo. In quella fase della sua produzione artistica, l’Italia resta il suo orizzonte dominante».