Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  gennaio 05 Domenica calendario

Intervista a Giancarlo Giammetti

Chi era Giancarlo Giammetti quando una sera di luglio del 1960 conosce Valentino Garavani in via Veneto, a Roma?
«Un po’ un figlio di papà, iscritto ad Architettura, che frequentavo pochissimo. Quella sera, aspettavo l’apertura del Pipistrello Night Club seduto al Café de Paris, dove mio padre aveva il conto aperto. In quell’inizio di Dolce Vita, era difficile trovare posto, per cui si sono avvicinati tre ragazzi e si sono seduti con me. Uno era Valentino». 
Nasce un sodalizio che crea un impero. 
«È nato subito un rapporto personale. Lui incontrava difficoltà di gestione della sartoria. Ai tempi, non si chiamavano maison o company. Pur nell’incapacità dei miei 22 anni, mi è venuto naturale aiutarlo. Siamo nati insieme, lui ha chiuso le vecchie società, ne abbiamo aperta una nuova e tutto è cominciato. Con la delusione dei miei: nel ’60, la moda non era vista come carriera per un figlio». 
Valentino ha detto che ha sempre sognato la bellezza e che da ragazzo fingeva di dormire e sognava le attrici: Judy Garland, Hedy Lamarr... Lei che sognava? 
«Di viaggiare, andare a Parigi, a New York. Di divertirmi e di finire studi che detestavo». 
In breve, lei e Valentino diventaste protagonisti della Dolce Vita. 
«Perché iniziavamo a vestire le attrici. Liz Taylor, per girare Cleopatra, è stata mesi a Roma, nacque un’amicizia e l’abito scelto per la prima di Spartacus, in chiffon col bordo di struzzo, ci fece conoscere all’estero». 
Quando arriva il sentore del successo? 
«Nel ’62 i nostri abiti erano già sui giornali americani. Nel ’65-’66, vestivamo le donne più importanti di New York e Los Angeles. Diana Vreeland, direttrice di Vogue, ci aveva preso in simpatia. Ci chiamava “the boys”. A New York ci ha fatto vedere spettacoli straordinari: era una nuova cultura, utile da assorbire anche nel lavoro». 
Il suo sogno di viaggiare e divertirsi si era realizzato? 
«Non abbiamo mai pensato di essere arrivati, ma sempre che si poteva fare meglio. Però, dal 1977, tengo ogni giorno un diario. Scrivo non più di cinque righe, è come un’agenda delle cose belle fatte. Ho sempre pensato che stavo vivendo esperienze abbastanza uniche e non volevo dimenticarle con l’età». 
Rilegge mai quei diari? 
«Quest’estate volevo portarne in barca venti dei più vecchi, poi mi sono detto: sai che noia. A volte, però, riguardo le Polaroid. Negli anni 70, ne scattavo parecchie. Nella casa di Roma passava tanta gente: Andy Warhol, Diana Vreeland, Jerry Hall, Pat Cleveland, Marisa Berenson, Cat Stevens... Pranzavamo con Andy e la Polaroid stava al centro del tavolo, mentre lui registrava tutto con un microfono. Dopo faceva trascrivere le conversazioni. Era un maniaco dell’immortalare il momento: non voleva farselo sfuggire né dimenticarlo. È quello di cui soffro anch’io». 
Quale luogo chiama casa? 
«Sono molto in giro, ma forse Roma. Mi piacerebbe rivederla stimolante come tanti anni fa». 
Quanto è stato forzato e tormentato l’addio all’operatività nel gennaio 2008? 
«Già la vendita ad Hdp, nel ’98, era stata realizzata perché il mondo della moda stava cambiando, e questa è stata la stessa ragione per cui, dopo, Valentino ha lasciato. Stava diventando un mondo in cui non era più felice». 
Un mondo in cui, per crescere, il conflitto era fra creatività e profitti? 
«Non è che io e Valentino disprezziamo il denaro, ma non lo consideriamo così importante rispetto alla creatività. Negli ultimi anni dovevamo sempre discutere con i soci. Lo facevo io, poi riportavo a lui, ma questa è stata la principale ragione per cui, alla fine, lui ha detto basta». 
Com’è stato il primo giorno in cui lui era solo il fondatore e lei solo il presidente onorario? 
«Per me e per Valentino niente è più stato drammatico, da allora. Da quando eravamo ragazzi non avevamo mai avuto un minuto in cui non sapevamo cosa avremmo fatto un mese dopo. Ora possiamo decidere sul momento. La libertà è stata la più grande vittoria. Soprattutto per lui che, disegnando le collezioni, non aveva mai avuto un giorno in cui non lavorava». 
Che effetto fa, oggi, assistere alle sfilate della Valentino? 
«Il nervosismo c’è comunque, ma siamo più rilassati. E non possiamo dire di essere delusi da quel che vediamo». 
Un bilancio del primo decennio di libertà? 
«È stato interessante. Il mondo offre molto da scoprire. Ho lavorato su progetti divertenti che mi hanno tenuto molto impegnato senza necessità o angoscia dell’ora esatta in cui fare le cose. Non posso ancora annunciarlo, ma ci sarà un grosso avvenimento sul lavoro di Valentino e dei suoi successori, dal ’60 a oggi. È in preparazione negli Stati Uniti, infatti quest’anno sono state le nostre famiglie a raggiungerci a New York per Natale». 
Parla al plurale: lei e Valentino vi vedete ancora tanto? 
«Continuamente. Viaggiamo sempre insieme. Spesso, coi miei due pomerania e i suoi tre carlini». 
Avete fatto coming out solo nel 2004, raccontando che eravate stati insieme per dodici anni. Perché così tardi? 
«Perché nessuno, prima, ce l’ha mai chiesto. Se no, avremmo risposto onestamente. Non ci siamo mai nascosti. Poi, in Valentino – The Last Emperor, il nostro sentimento è diventato quasi protagonista. Quel film ha fatto capire che due persone dello stesso sesso potevano avere una vita di successo nel lavoro e nel loro sentimento. Che potevano progredire, fare il mestiere che amavano, imporre il loro stile. C’era chi mi fermava per ringraziare e dire che, attraverso il film, aveva trovato il coraggio di fare coming out». 
Però, dopo la prima proiezione, chiamaste gli avvocati. 
«La prima visione non ci era piaciuta: se fanno un film su di te, vedi cose che non vorresti aver detto, momenti che volevi tenere segreti. Sono stati i nipoti, all’epoca ventenni, a convincerci: dicevano che eravamo pazzi e che il film era straordinario. Poi, gentilmente, il regista ha tolto qualcosa». 
Che cosa? 
«Alcune scene sul rapporto personale o quando parlo con Valentino e ho la bocca piena. Dettagli di vanità, non di sostanza». 
Nel film emerge un Valentino imperioso. Che qualità le è servita per stargli vicino per 50 anni? 
«Non so se chiamarla qualità. Si chiama miracolo, forse. Devi avere molta pazienza. Però sapendo che gli scatti durano pochissimo. Dopo dieci minuti, non c’è più niente. Siamo famosi per liti, ma anche perché torniamo subito tranquilli come prima». 
Liti dovute a che? 
«Valentino non vuole tanto essere spinto a fare cose che non ha voglia di fare. Fare quello che vuole è stata la sua forza e parte del suo grande successo: è riuscito a imporre quello che voleva e io ho potuto solo agevolarlo». 
Si narra anche che possa far volare i piatti all’aria se sono sbagliati di sale. 
«Tanti ne sono volati, in effetti». 

Lei cosa non sopporta? 
«I leccapiedi». 
Ne ha incontrati molti? 
«Proprio per questo mi danno fastidio. Anche perché Valentino è rimasto estremamente naïf e, a volte, ci crede ancora. Per cui, devo proteggere anche lui e ho a che fare col doppio dei leccapiedi».