Corriere della Sera, 5 gennaio 2020
I veri numeri sugli immigrati in Italia
Le immagini dei primi nati dell’anno sono commoventi. I neonati, in un Paese che invecchia, sono ancora più i benvenuti. Il primo nato a Torino è stato Hadega; a Brescia Youssef; in Calabria Harshita; in Liguria Daniel; in Friuli Venezia Giulia Amar; in Sicilia Mohammed; in Puglia Iuliana. Che cos’hanno in comune questi bimbi? Sono tutti figli di immigrati. L’Italia è il loro Paese. L’Unicef ha stimato per il giorno di Capodanno la nascita in Italia di oltre mille e duecento bimbi. Speriamo siano stati di più. Comunque uno ogni 39 cinesi. Questo articolo presumo non piacerà. Forse, alla fine, nemmeno al suo autore. Perché anche chi scrive vorrebbe non vivere la contraddizione italiana di temere l’immigrazione, specie se disordinata, e, nello stesso tempo, di averne razionalmente bisogno. E, dunque, rimuove il pensiero. Una sorta di tabù inconfessabile. Uno sdoppiamento consapevole della nostra personalità di cittadini. Aperti e disponibili verso lavoratori immigrati operosi, badanti e collaboratori domestici. Insostituibili, preziosi. Gli immigrati di cui conosciamo utilità e impegno sono i benvenuti. A loro concederemmo volentieri la cittadinanza, salvo opporci fermamente alla sola idea appena il discorso si sposta sul piano generale. Ma gli altri immigrati, indistinti, sconosciuti, che vediamo nelle strade e nelle piazze, non sono i benvenuti. Al di là dei buoni sentimenti e dello spirito solidale di cui è ricco per fortuna il Paese.Scoprire di essere minoranza italiana nel vagone della metropolitana di una nostra città può suscitare un senso incontrollabile di estraneità. Normale. Lo scacciamo per buona educazione. La stragrande maggioranza degli imprenditori apprezza il lavoro degli immigrati che impiega. Sa che non potrebbe farne a meno. Ma nello stesso tempo non è raro vedere molti industriali o commercianti applaudire ai porti chiusi — che mai peraltro lo sono stati — e alla politica delle frontiere sigillate, alla Orbán. La porta serrata in faccia agli altri. Quelli che non si conoscono. Ma i propri bravi collaboratori sono lombardi, veneti, pugliesi, ormai da sempre.
Il ritardo costante e la mancata programmazione del decreto flussi (ultimo nell’aprile scorso) non facilitano il reperimento di manodopera. E giustamente chi ha un’azienda, e non riesce a coprire i profili lavorativi di cui ha bisogno, ne sollecita l’allargamento delle maglie. I nostri connazionali che si lamentano, a torto, del lavoro loro sottratto mai si adatterebbero a mansioni riservate ormai solo agli immigrati. Un apprezzato imprenditore marchigiano dell’agroalimentare Giovanni Fileni («Scegli il bio», recita lo spot) confessa che senza immigrati avrebbe già chiuso. Sono rari i suoi conterranei che accettano di lavorare in un pollaio, seppure biologico. L’amministratore delegato della Fincantieri, Giuseppe Bono, ha spiegato che nei prossimi due o tre anni avrà bisogno di almeno 6 mila lavoratori, operai, tecnici, saldatori, ma non sa dove trovarli. In Italia il numero delle (dei) badanti, è ormai superiore al milione. Quasi il doppio dei dipendenti del sistema sanitario nazionale. Se si fermassero tutti insieme tante famiglie sarebbero alla paralisi, nella disperazione.
L’Istat ha appena aggiornato i dati sulla popolazione italiana. O non li leggiamo oppure ci siamo già fatalmente rassegnati al declino. A cominciare da coloro che invocano «prima gli italiani», che sono sempre di meno. Al primo gennaio del 2019 eravamo residenti in 60 milioni 359 mila 546. In un anno 124 mila in meno. Ma il saldo naturale (vivi e morti) è ancora peggiore. Nel 2018 era negativo per 193 mila 386 unità. I nati vivi nel 2018 (439 mila 747) sono al minimo dall’Unità d’Italia. Il tasso di fecondità è 1,32 per donna. Dovrebbe essere superiore a 2 per garantire la stabilità della popolazione. «Ultimi gli italiani», senza volerlo. Questo è lo slogan vero.
La popolazione straniera residente era pari, alla fine del 2018, sempre secondo i dati Istat, a 5 milioni 255 mila 503 unità, l’8,7 per cento del totale con un incremento di 111 mila unità, senza tenere conto ovviamente degli irregolari. La Svizzera è al 25 per cento; la Germania all’11,7. Siamo all’undicesimo posto in Europa per presenza di immigrati. Nel 2018 i nuovi permessi di soggiorno rilasciati ai cittadini non comunitari sono stati 242 mila, il 7,9 per cento in meno rispetto a un anno prima. Il sollievo di meno sbarchi, meno arrivi per la prima volta dall’Africa — di cui si è parlato tanto in questi giorni — è compensato dalla constatazione, più amara e silenziosa, che l’Italia come terra di emigrazione non sia più così tanto attrattiva. Perché non cresce. E, infatti, aumentano dell’1,9 per cento i nostri connazionali che si trasferiscono all’estero in cerca di un lavoro. In realtà sono molti di più perché le statistiche registrano solo le cancellazioni all’anagrafe. Oltre il 65 per cento dei nuovi permessi a immigrati è andato a persone con meno di 30 anni. Mentre i nostri giovani — l’emergenza emigrazione di cui non ci occupiamo — soprattutto laureati e in particolare dal Sud se ne vanno in massa. Il saldo migratorio, da anni ormai, non compensa la negatività del saldo naturale. Fa peggio di noi, in Europa, solo la Romania che è un Paese a fortissima emigrazione. Insomma, non c’è una invasione, semmai una lenta inesorabile evacuazione.
Qualche riflessione in più, pacata e non strumentale, sul tema dell’immigrazione (la necessità di avere manodopera di qualità, programmando gli arrivi) e dell’emigrazione, soprattutto dei nostri giovani laureati, guardando al futuro del Paese, al suo benessere reale, sarebbe opportuna. Vivere di slogan, false percezioni e pregiudizi, è il modo migliore per invecchiare ciecamente, impoverendosi nel rancore, lasciando in eredità non solo debiti ma anche l’incapacità di capire l’evoluzione futura del Paese. Una società multietnica è inevitabile. Bisogna solo scegliere se governarla o semplicemente subirla.