1 – COME IL CAPO DI UNA GANG, 4 gennaio 2020
DITE A MICHELE SERRA, SECONDO CUI TRUMP È UN ASSASSINO, DI SFOGLIARE IL SUO GIORNALE! QUALCHE PAGINA PRIMA DELL’AMACA INDIGNATA CONTRO IL PUZZONE C’È RAMPINI CHE SPIEGA PERCHÉ DONALD HA FATTO FUORI SOLEIMANI, CHE NON ERA UN SINCERO DEMOCRATICO, MA STAVA PREPARANDO ATTACCHI CONTRO DIPLOMATICI E MILITARI AMERICANI – GLI ATTACCHI CONTRO LE PETROLIERE, L’ABBATTIMENTO DEL DRONE: DA MESI L’IRAN SCHERZA CON IL FUOCO…– VIDEO -
Michele Serra per “la Repubblica” L' assassinio politico viene esaltato, tradizionalmente, dai sovversivi, dai rivoluzionari, dai regicidi anarchici, dalle frange marginali e disperate che considerano di non avere altro mezzo, per esistere, se non la violenza; e per questo la sbandierano. Anche il Potere, anche gli Stati ne commettono, di delitti politici. Comprese le democrazie.
Ma non li rivendicano; oppure, se decidono di farlo, lo fanno con gravità, quasi con solennità, con la coscienza che si sta parlando di una soluzione estrema, si sta parlando di sangue e di morte. Utile rivedere e riascoltare, soprattutto in queste ore, come caso di scuola, la dichiarazione di Obama dopo l' uccisione di Bin Laden, che pure era uno dei capi indiscussi del terrorismo islamista, responsabile di decine di migliaia di morti in tutto il mondo.
Caso ben diverso (ben più giustificabile, diciamo) da quello di Soleimani, esponente di primissimo piano di un Paese importante come l' Iran. Trump è il primo boss di una democrazia occidentale che rivendica l' assassinio di un nemico politico (e non è la prima volta, accadde anche con Al Baghdadi) con gongolante spensieratezza, come se fosse una vittoria sportiva da rinfacciare alla tifoseria nemica. Gli sciocchi (pochi, per fortuna) che da questa parte dell' Oceano gli si accodano, non si rendono conto che se la democrazia ragiona e parla come il capo di una gang, significa che la Storia sta compiendo un vero e proprio cambio di passo. Le persone serie lo capiscono, se ne preoccupano, vivono momenti di angoscia. Gli sciocchi festeggiano insieme a Trump
2 – LA SFIDA LETALE DELLA CASA BIANCA Federico Rampini per “la Repubblica”
«È la mossa più rischiosa compiuta dall' America in Medio Oriente dopo l' invasione dell' Iraq nel 2003». Così il New York Times giudica l' uccisione del generale Qassem Soleimani, il capo militare iraniano eliminato su ordine di Donald Trump. La reazione da Teheran è così minacciosa che lo stesso Trump sembra in cerca di giustificazioni, o di un' improbabile distensione. Dice che la sua decisione era necessaria, perché «Soleimani preparava attacchi imminenti e sinistri contro diplomatici e militari americani». Questa motivazione ufficiale è la risposta alle accuse dell' opposizione democratica americana. Trump aggiunge: «Ho deciso quest' azione per fermare una guerra, non per cominciarla». Ma davvero la Casa Bianca è sorpresa dalla reazione dell' Iran, di cui ha eliminato uno dei massimi capi militari?
Ora Washington teme una vendetta durissima: il Dipartimento di Stato esorta gli americani a lasciare l' Iraq, cioè uno Stato alleato, dove l' America ha investito migliaia di vite umane e risorse economiche ingenti. L' eliminazione di un singolo nemico, per quanto importante, può valere la perdita d' influenza in Iraq?
Il fattore Golfo Per spiegare quel che ha condotto all' eliminazione di un combattente di quel livello, mentre si trovava sul territorio iracheno "invitato come consulente" dal governo di Bagdad, bisogna ricostruire le ultime puntate di un crescendo di tensione.
Gli attacchi iraniani contro navi petroliere di diverse nazionalità, nel Golfo Persico: una sfida diretta al ruolo degli Stati Uniti come garanti della libertà di navigazione in quella parte del mondo (anche se il petrolio che vi transita non viene più importato dagli americani, ormai autosufficienti, è tuttavia vitale per alleati come Europa India e Giappone, o rivali come la Cina).
La distruzione di un drone Usa da parte degli iraniani. Il micidiale attacco, sempre ad opera di droni iraniani, che mise fuori uso importanti impianti petroliferi dell' Arabia saudita: un colpo tremendo ad un alleato strategico di Washington, non tanto per il danno economico ma per l' enorme caduta di credibilità militare di Riad. Da ultimo, l' uccisione di un cittadino americano in Iraq e l' assalto-assedio all' ambasciata Usa a Bagdad, attribuiti a fazioni filo-iraniane manovrate dagli ayatollah e forse dal generale Soleimani.
Da mesi l' Iran stava sfidando l' America, colpo su colpo ne logorava la credibilità in tutto il Medio Oriente. Questa sfida risponde a uno scenario di deterioramento programmato delle relazioni: fu Trump a stracciare l' accordo voluto dal suo predecessore Barack Obama, che aveva offerto la fine dell' embargo all' Iran in cambio di un congelamento del piano nucleare. Quell' accordo secondo Trump era un grave errore.
Allineandosi con le preoccupazioni di Israele e dell' Arabia saudita, i suoi due "mentori" in Medio Oriente, Trump ha optato per la linea del regime change: la teocrazia sciita di Teheran va rovesciata, a meno che si ravveda completamente dai suoi crimini e rinunci alle sue ambizioni egemoniche in alcune aree limitrofe (Libano, Siria, Yemen). Indurendo le sanzioni Trump sperava di indebolire Khamenei e i falchi iraniani; forse ha ottenuto l' effetto opposto di indebolire i moderati del regime come il presidente Rohani. L' economia iraniana si avvita in una crisi grave, la popolazione si rivolta contro il regime; quest' ultimo non esita a rispondere con una repressione sempre più sanguinosa (centinaia di morti).
Il crescendo
L' una e l' altra parte sembrano avviate verso un crescendo quasi ineluttabile, rafforzato da due narrazioni contrapposte, bellicose e belliciste. Washington è convinta che il regime iraniano cerchi la guerra per distrarre dal suo malgoverno e dalle sue difficoltà interne; affrontare il Grande Nemico americano giustifica leggi marziali e zero tolleranza contro le proteste. Teheran ribatte descrivendo un Trump che vuole la guerra per sfuggire all' impeachment o risollevare le sue chance elettorali.
Sul fronte interno americano, colpisce la divisione. Questa non è un' America che si compatta di fronte a un conflitto internazionale. Dalla presidente della Camera Nancy Pelosi in giù, i dirigenti del partito democratico criticano o condannano Trump; c' è chi paventa l' illegalità dell' esecuzione di Soleimani, e chi denuncia l' esautorazione del Congresso. E' lontana l' unità nazionale che dopo l' 11 settembre consentì a George W. Bush di trascinare il paese nell' invasione dell' Iraq. Un' altra divisione interna indebolisce gli Stati Uniti: quella fra la Casa Bianca e il Pentagono. I militari non vogliono affatto ritirarsi dal Medio Oriente, costringono questo presidente a uno stop-and-go, prima si ritira dalla Siria poi manda nuove truppe in Arabia saudita. Più che guerrafondaia quest' America sembra indecisa a tutto, e così facendo incoraggia ogni sorta di avventure. E ancora una volta, come ai tempi di Jimmy Carter quarant' anni fa, la sorte di una presidenza americana può dipendere dal comportamento dell' Iran.