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 2020  gennaio 04 Sabato calendario

Il calcio ha perso identità, riti e tifosi

Il Natale, col suo contorno di Feste insopportabili, ha però il pregio di togliere di mezzo almeno per una decina di giorni il pallone (fino a un certo punto, perché c’è pur sempre il calciomercato). Con Giancarlo Padovan, che è del mestiere, abbiamo scritto un libro: Storia reazionaria del calcio. I cambiamenti della società vissuti attraverso il mondo del pallone. È un libro in cui si parla, e molto, di calcio, ma non è un libro sul calcio. Abbiamo preso il calcio come uno degli specchi della società. Quali sono i Demoni del mondo di oggi? L’Economia e la Tecnologia. Ebbene Economia e Tecnologia, sia separatamente, sia strettamente intrecciate fra loro, stanno via via svuotando il calcio di quei contenuti identitari, comunitari, rituali, simbolici, mitici che per più di un secolo hanno fatto la fortuna di questo gioco. I più importanti sono i motivi identitari e comunitari. Come si fa a identificarsi in una squadra che gioca con dieci o undici stranieri, con giocatori che cambiano società ogni anno e anche all’interno dello stesso campionato con tanti saluti alla regolarità della competizione, con presidenti americani o cinesi?
E se gioca in trasferta la squadra lascia la maglia tradizionale negli spogliatoi per indossarne un’altra in funzione degli sponsor. Non esistono più i giocatori simbolo, i Rivera, i Mazzola, i Riva, i Bulgarelli, gli Antognoni (l’ultimo portabandiera di questo calcio d’antan è stato Totti). La tv si è impadronita del calcio, inteso più come spettacolo che come sport, spodestando il calcio da stadio cioè il vero calcio che dal 1982 ha perso più del 40 per cento degli spettatori. Chiunque mastichi calcio sa che differenza c’è, innanzitutto emotiva ma anche tecnica, fra vedere una partita sul campo e vederla in tv, tra una chiacchierata e l’altra, un’incursione nel frigo, una risposta al cellulare. Il calcio è un rito, una Messa laica che, come tale, vuole una concentrazione assoluta.
Una volta, ma qui parliamo di molto tempo fa, a parte gli stronzi in tribuna d’onore, non c’era la divisione sugli spalti a seconda dello status sociale. L’operaio si poteva trovare a fianco del piccolo o medio imprenditore. Era la funzione comunitaria, interclassista, di quello che, insieme al ciclismo, era il grande sport nazionalpopolare.
Come se non bastasse è stato introdotto il Var. Tre arbitri nei sotterranei dello stadio, vestiti grottescamente in tenuta di gioco, rivedono sui monitor l’operato dell’arbitro in campo perché sia esclusa ogni possibilità di errore (l’arbitro è diventato in pratica un impiegato, un impiegato della Tecnica, come siam tutti). È l’illusione, tutta moderna, di poter controllare tutto ed eliminare l’errore. Ma questa possibilità non si dà in natura. Il film Rashomon di Akira Kurosawa ci dà in questo senso una lezione. Nella prima scena si vede una coppia, un samurai con la moglie, che in una foresta viene assalita da dei banditi. Lei viene stuprata, lui ucciso. Ci sono poi anche altri che hanno assistito al delitto. Al processo vengono ascoltate le varie testimonianze, compresa, via medium, quella dell’ucciso.
A ogni testimonianza Kurosawa fa rivedere la scena iniziale senza cambiare un solo fotogramma. E tutte appaiono verosimili. Del resto la stessa fisica moderna ha ammesso che non esistono verità oggettive, ma che tutto dipende dal punto di vista dell’osservatore. E Nietzsche, da par suo: “Non esiste la realtà, ma solo le sue rappresentazioni”.
Ma la cosa veramente insopportabile del Var è che se la tua squadra segna un gol non puoi esultare. Fermi tutti, c’è il Var. Si crea una sorta di assemblea fra arbitro in campo, guardalinee, quelli del Var, il quarto uomo, che può durare anche quattro o cinque minuti. Solo quando l’arbitro, dopo le varie consultazioni, indica il cerchio del centrocampo, il che vuol dire che è gol, o il punto da cui deve essere battuto il presunto fuori gioco, ci si può abbandonare alla gioia o alla disperazione. Ma la situazione è surreale perché in quel momento in campo non sta succedendo nulla. Inoltre la partita è come un racconto, non può essere interrotta per qualcosa che non ha nulla a che vedere con ciò che in quel momento sta succedendo sul campo. È come inserire un piccolo saggio, perfetto, perfettissimo, fra due terzine di Dante. Si perde tutta la poesia.
Domani ricomincia la rumba. Le partite, sempre per esigenze televisive ed economiche, vengono spalmate su tutto l’arco della settimana. Il venerdì l’anticipo di B, il sabato la B e due anticipi di A, la domenica a mezzogiorno altra partita, alle tre del pomeriggio si giocano quelle meno interessanti, alle 18.30 una gara di medio valore, alle 20.45 il clou della giornata, il lunedì c’è il posticipo di A, il martedì e il mercoledì la Champions, il giovedì quella competizione comica che è l’Europa League. E così il cerchio si chiude. Una overdose che potrebbe stroncare un vampiro per eccesso di sangue.