Il Messaggero, 4 gennaio 2020
Biografia di Isaac Newton
All’inizio del nuovo anno, ci sembra doveroso ricordare uno scienziato che diede all’umanità una nuova visione del mondo. Il 4 gennaio 1643 nacque infatti a Woolsthorpe, nella contea di Lincoln, Isaac Newton, l’astronomo che stese le sue ali, come poetò Ugo Foscolo, sulle vie del firmamento. Le vie erano già state aperte da altri, ma Newton vi diede una topografia fondata sui calcoli, che avrebbe retto fino all’avvento di Einstein. È ozioso domandarsi chi dei due abbia influito di più sulla nostra conoscenza. Ma è certo che Newton le diede un impulso e un orientamento decisivi.
ORDIGNI
Non era stato un genio precoce. A scuola era stato definito svogliato e disattento, anche perché passava il tempo a escogitare, come Archimede pitagorico, ordigni meccanici strani e inutili. Ma a differenza della simpatica creatura di Walt Disney, mise presto a frutto le sue capacità. A 19 anni fu ammesso al Trinity College di Cambridge e a 27 ne divenne professore: il suo maestro, Isaac Barrow, lo aveva già definito «genio senza pari». Con questo viatico lusinghiero, il giovanotto divenne un’autorità nella matematica, nell’ottica e nell’astronomia, con qualche scantonamento nell’astrologia e negli esprimenti alchimistici, tanto da cercare in laboratorio l’elisir di lunga vita e persino la pietra filosofale. Non c’è da stupirsi di questi successi dell’invincibile superstizione. Anche oggi, in pieno razionalismo tecnologico, fior di cervelli si rivolgono ai guaritori e leggono l’oroscopo.
Non era un carattere facile: era introverso, scontroso e talvolta arrogante. Viveva frugalmente, mangiava poco e male, calzava scarpe di foggia diversa ed era così distratto da dimenticarsi degli ospiti quelle poche volte che li invitava. Su queste stravaganze solitarie fiorirono leggende, come quella della mela che gli sarebbe caduta in testa ispirandogli le teorie sulla gravità. Reali furono invece le sue polemiche, talvolta poco edificanti, con altri scienziati, come Leibnitz e Hooke, che contestavano l’originalità delle sue scoperte. In effetti Newton mutuò alcune tesi dallo stesso Hooke e da Giovanni Alfonso Borelli. La sua genialità fu di tradurle in un sistema compiuto che avrebbe rivoluzionato un mondo e contrassegnato un’epoca: i Philosophiae Naturalis Principia Mathematica.
In quel massiccio trattato imbrigliò tutti i corpi dello spazio dentro una rete di forze ricostruibili con criteri matematici ed esprimibili in formule meccaniche. Lì enunciò le tre fondamentali leggi del moto, e definì il principio di gravità come una forza direttamente proporzionale al prodotto delle masse e inversamente proporzionale al quadrato delle distanze dei corpi celesti. Con questi solidi mattoni rappresentò l’Universo come una struttura funzionante secondo una coerenza armonica e razionale. Mai prima d’ora la mente umana aveva raggiunto, nell’esplorazione del Cosmo, vette così elevate.
ATTRAZIONE
Lì erano spiegate l’attrazione della Terra nei confronti della luna, le masse dei pianeti e la densità della terra, il suo appiattimento ai poli e il suo rigonfiamento all’equatore, il flusso delle maree e la processione degli equinozi, e persino la riduzione delle orbite delle comete secondo ritmi regolari, confermando la predizione di Halley. Al vertice di questa architettura, Newton collocò l’influenza gravitazionale delle stelle. Il mondo ne fu affascinato, e la prima edizione dei Principia fu presto esaurita e divenne introvabile: un collega dell’Autore, non potendosene procurare i volumi, ricopiò a mano l’intera opera. Questo sistema non fu tuttavia universalmente accettato. La Francia era ancora vincolata al teorema dei vortici di Cartesio, e dovette aspettare Voltaire per averne un’esposizione convincente e condivisa. Altrove, le obiezioni furono anche più severe: Cassini osservò che rimaneva inspiegata la natura della gravitazione; Leibnitz definì queste leggi formulazioni senza significato; Berkeley lamentò che una visione così meccanicistica ignorava l’intervento divino. Newton ammise con inusuale modestia di non conoscere la natura della gravitazione, ma respinse l’accusa di ateismo. Sostenne che questo perfetto orologio supponeva un orologiaio, che di tanto in tanto interveniva per correggerne alcuni difetti e ricaricarne le molle. Non era un espediente per cautelarsi dalle persecuzioni. Newton era intimante religioso e i suoi scritti teologici sono più numerosi delle sue opere scientifiche. Studiò la Bibbia con zelo, e in un commento all’Apocalisse concluse che l’Anticristo predetto da Giovanni era il papa di Roma.
RICONOSCIMENTI
Superate queste difficoltà, Newton fu riconosciuto come il più grande genio del suo tempo. Ebbe numerosi riconoscimenti pubblici, nel 1703 divenne presidente della Royal Society e poco dopo fu nominato cavaliere. Nonostante le distrazioni seppe mettere a frutto le sue qualità. Per quasi trent’anni fu direttore della Zecca di Stato, dove era stato chiamato nella speranza che le sue conoscenze chimiche servissero a coniare nuova valuta. Nel frattempo investì oculatamente i suoi risparmi. Quando morì, alla venerabile età di 83 anni, lasciò l’enorme somma di 32000 sterline.
LA RAGIONE
Newton non fu, in senso stretto, il padre dell’astronomia moderna. Ne era debitore a Galileo, a Keplero, a Copernico e naturalmente a Cartesio, di cui non condivideva nulla salvo il primato della Ragione come unico strumento di indagine. Lui stesso riconobbe – mutuando un pensiero di Bernardo di Chartres – di aver visto più lontano perché camminava sulle spalle di giganti. Né le sue conclusioni furono del tutto esatte, perché la teoria spaziotemporale di Einstein le ha in parte smentite o comunque corrette, come certamente lo sarà un giorno la fisica relativistica, da parte dei nostri discendenti. Le verità scientifiche sono provvisorie, anche se sono le uniche sulle quali il nostro limitato intelletto può contare. E ci è gradito ricordare che mentre Newton iniziava le sue ricerche astrali, Pascal aveva già elaborato il pensiero più elevato mai concepito dalla mente umana: che «la fine delle cose e il loro principio ci sono nascoste in un impenetrabile segreto, e noi siamo ugualmente incapaci di comprendere il nulla da cui siamo stati tratti e il tutto in cui siamo stati inghiottiti». Nondimeno, una volta riconosciuta umilmente la nostra fragilità fisica e spirituale, ci inchiniamo riverenti davanti all’intelligenza e all’immaginazione di questo scienziato, che in un tardivo eccesso di modesta disse di sé: «Sono stato come un ragazzo sulla spiaggia, lieto di trovare qualche conchiglia più bella del comune, mentre il grande oceano della verità giace del tutto insondato davanti ai miei occhi».