Tuttolibri, 4 gennaio 2020
Verso i 100 anni di Fellini
Venne alla luce «in una vettura ferroviaria di prima classe mentre il treno correva fra Viserba e Riccione, precisamente a Rimini»: era il 20 gennaio 1920, e visto che il neonato in questione è Federico Fellini, la storia di questa nascita straordinaria non è vera, trattasi della «primissima fra le infinite leggende felliniane». Tuttavia poiché, documenti anagrafici alla mano, la data è giusta, il 2020 si conferma l’anno del Centenario che, in Italia e nel mondo, molti si preparano a celebrare: a cominciare da Cinecittà, che per il cineasta romagnolo naturalizzato romano ha rappresentato la terza patria, il punto d’approdo, la «casa». «Sono nato, sono venuto a Roma, mi sono sposato e sono entrato a Cinecittà. Non c’è altro»: così Federico sintetizzava la sua esistenza all’amico e futuro biografo Tullio Kezich in una telefonata natalizia del 25 dicembre 1985; e, ribadendo la sua perpetua condizione di transfuga dalla vita concludeva «Come si fa raccontare la storia di uno che non c’è?». Eh già! E come si fa a racchiudere in poche righe la personalità di un artista che – dovesse assistere da una nuvoletta lassù ai caroselli in suo onore - si chiederebbe divertito: «Ma chi festeggiano? Io non c’ero… ero altrove»?
Dunque, dato che Fellini per sua stessa ammissione è un latitante; e considerato che quella del Monumento nazionale - quale, inevitabilmente, il suo genio e la fama internazionale hanno da un certo momento in poi consacrato – è una maschera nella quale non si è mai riconosciuto; insomma preso atto di tutto questo, per parlare di lui, e spiegare per quale motivo ne stiamo parlando, non ci resta che ripiegare sull’aggettivo «felliniano», che ne racchiude l’intero mondo poetico. Un mondo misterioso, sconfinato, in qualche modo impenetrabile dove troviamo il Fellini vero, colui che reputava l’attività artistica uno scafandro indispensabile per immergersi «nell’oceano dell’esistenza». Tuttavia, restando nella metafora, non è solo nuotando nelle acque dei suoi capolavori «tutti inventati» - da I vitelloni a Otto e mezzo, da Le notti di Cabiria ad Amarcord - che ci imbattiamo nell’Eterno Felliniano: quanto spesso usiamo il termine per definire una situazione onirica, un personaggio bizzarro, un’atmosfera o uno stato d’animo?
Ormai patrimonio dell’umanità, il cinema di Fellini ci ha regalato un modo speciale di filtrare le cose, ispirando al contempo cineasti di altre generazioni e di altri paesi. Qualche esempio? A parte La grande Bellezza di Sorrentino, sorta di sequel di La dolce vita tanto la citazione è trasparente, basta un’occhiata ai titoli attualmente in sala. La Ashley di Un giorno di pioggia a New York scende diretta dalla Wanda di Lo sceicco bianco, e non è la prima volta che Woody Allen ( vedi il suo 8 e mezzo/ Stardust Memories) si rifà alla lezione del maestro riminese. Che dire poi di La Dea Fortuna di Ozpetek, con quelle immagini di immote vestigia che come in La dolce vita, Satyricon o Roma provvedono a far risuonare nell’effimero presente il basso continuo dell’eternità? E di Pinocchio dove Garrone propone un’idea di favola, che come La Strada schiude l’affresco di un’Italia fangosa, di teatranti vagabondi, di una magia a misura di ancestrale cultura contadina?
Impossibile definire Fellini. Un cattolico eversivo, un bugiardo sincero, un antintellettuale spavaldo formatosi fra fumetti, radio, varietà; un giornalista mancato dotato di inesauribile curiosità; serio e irriverente, scherzoso e malinconico; un a-politico politico; un sognatore capace di aprire prospettive nuove su realtà antichissime e di gettare uno sguardo profetico sulla nuova barbarie in arrivo. Di sicuro c’è che, qualsiasi sia l’ottica con cui ci accostiamo alla sua creatività, lo scopriremo nostro contemporaneo.