La Stampa, 4 gennaio 2020
Trump, l’Iran e il potere della deterrenza
L’eliminazione del generale dei pasdaran Qassem Soleimani è frutto della volontà del presidente americano Donald Trump di ridimensionare il potere militare iraniano in Medio Oriente e pone ora l’interrogativo su come il regime degli ayatollah difenderà la propria ambizione all’egemonia sull’intera regione.
Sin dall’arrivo alla Casa Bianca Trump ha dimostrato di voler ridurre il ruolo strategico che l’Iran era riuscito a costruirsi durante gli otto anni dell’amministrazione Obama: il ritiro dall’accordo nucleare del 2015 ha privato Teheran della legittimità del programma nucleare; le sanzioni contro il sistema petrolifero hanno fatto venir meno il flusso di denaro che alimentava operazioni militari e terroristiche; il sostegno ai legami (in gran parte ancora segreti) fra Paesi sunniti e Israele ha creato un contrappeso strategico; gli attacchi cibernetici hanno fiaccato le difese della Repubblica islamica. Ma il tassello più importante per Ali Khamenei, Guida Suprema della Rivoluzione, era Qassem Soleimani: da 22 anni capo della Forza Al Quds dei Guardiani della rivoluzione, regista della guerriglia sciita in Iraq (costata agli Usa almeno 600 morti), stratega della vittoria di Bashar Assad in Siria, ideatore del massiccio arsenale missilistico con cui Hezbollah minaccia Israele, inventore dei ribelli Houthi come clava contro l’Arabia Saudita e, più in generale, primo protagonista dell’ambizioso disegno della «Mezzaluna sciita»
ovvero la creazione di una continuità territoriale fra Iran, Iraq, Siria e Libano dominata dagli sciiti - per la prima volta dalla nascita dell’Islam - a scapito degli Stati sunniti e dei loro alleati americani. Gli incontri privati al Cremlino con Vladimir Putin sulla Siria, le petroliere nel Golfo bloccate dalle sue mine, l’industria petrolifera saudita ferita dai suoi droni hi-tech e l’aver creato dal nulla gli Hezbollah iracheni - 25 mila uomini - devono aver fatto percepire a Soleimani una sorta di onnipotenza, tanto più che era riuscito a scampare a più tentativi di eliminazione da parte di Israele e il suo unico superiore era il grande ayatollah Khamenei in persona.
Ma tale e tanto potere lo ha portato a commettere l’errore fatale: l’assalto all’ambasciata Usa a Baghdad del 31 dicembre, con centinaia di miliziani sciiti penetrati dentro la zona di sicurezza, ha fatto percepire alla Casa Bianca di essere ad un passo dall’umiliazione. Se Trump non avesse reagito avrebbe ripetuto l’errore di Jimmy Carter davanti al sequestro dei diplomatici Usa a Teheran nel 1979 e l’errore di Barack Obama davanti alla brutale uccisione del console americano a Bengasi nel 2011.
Era stato Soleimani a ordinare il blitz di Baghdad con l’intento di vendicare l’attacco aereo Usa subito dai suoi Hezbollah iracheni pochi giorni prima, al fine di ottenere la più nitida immagine dell’impotenza di un’America incapace di difendere a Baghdad la sua più grande sede diplomatica al mondo. E se, nella notte fra il 2 e il 3 gennaio, Soleimani era arrivato a Baghdad era proprio per coordinare da vicino la continuazione dell’assedio alla sede Usa con Abu Mahdi al-Muhandis, suo vice e capo delle milizie sciite. Ma per Soleimani è stato un fatale eccesso di sicurezza: avendo vissuto in prima persona negli ultimi anni il ritiro degli Usa dalla Siria ed il loro indebolimento in Iraq e nel Golfo, ha pensato che il «Grande Satana» fosse in ginocchio al punto da poterlo trafiggere propri lì, nel cuore di Baghdad, dove aveva deposto Saddam Hussein nel 2003. Sottovalutare l’America è l’errore più comune da parte dei suoi avversari - da Breznev ad Arafat, da Milosevic a Saddam, da Bin Laden ad Al-Baghdadi - e Soleimani lo ha ripetuto dimenticando che l’arsenale Usa in Medio Oriente resta comunque senza rivali, inclusi i missili che lo hanno eliminato. Restituendo all’America un potere di deterrenza militare che sembrava non voler più usare.
Adesso il cruciale interrogativo è come Khamenei difenderà il progetto della «Mezzaluna sciita» - ovvero il disegno di una regione sottomessa all’Iran - dopo lo smacco subito. L’imponenza delle risorse finora dedicate, le qualità dei vice formati da Soleimani e la vocazione rivoluzionaria dell’Iran khomeinista suggeriscono che Khamenei dovrà rispondere alla sfida di Trump in maniera talmente evidente da non apparire indebolito, soprattutto sul temibile fronte interno. Saranno dunque tempi e modi della reazione di Teheran a descrivere la strada scelta da Khamenei per consumare una «vendetta» da cui dipende la sua credibilità di leader. Di sicuro il duello con Trump si preannuncia come un protagonista dell’anno appena iniziato: può avere un impatto sull’intero Medio Oriente e può giovare al candidato alla rielezione alla Casa Bianca.