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 2020  gennaio 04 Sabato calendario

Martin Scorsese si racconta

Martin Scorsese non era così entusiasta da tempo nel suo lavoro, così pieno di rinnovata passione per la regia cinematografica, rinvigorito dall’accoglienza riservata al suo ultimo kolossal sul mondo delle gang, The Irishman. Ma ciò di cui vuole parlare è la morte. Sia chiaro: non parla dei morti nei suoi film, né della morte di qualcun altro. «Bisogna lasciar andare le cose, soprattutto quando si ha l’osservatorio privilegiato di un’età considerevole», spiega in un incontro un sabato pomeriggio del mese scorso.
Il regista settantasettenne è allungato in una comoda poltrona del salotto della sua residenza di Manhattan dalla quale, durante un’animata chiacchierata sulla caducità umana e sull’ineluttabilità della morte, si alza numerose volte. Come spiega, Scorsese alludeva a mettere da parte le sue aspettative per il film The Irishman , ma intendeva anche dire che bisogna saper rinunciare ai beni materiali. «Il punto è disfarsi di tutto adesso», dice con una delle sue battute secche diventate marchio di fabbrica. «Devi capire cosa lasciare andare e cosa no». E, ovviamente, l’ultima fase di questo processo è lasciar andare la vita stessa. Come tutti dobbiamo fare. «Spesso, la morte arriva all’improvviso», continua. «Se ti viene concessa la grazia di continuare a lavorare, faresti meglio a trovare qualcosa che valga davvero la pena di essere raccontata».
Scorsese ha trovato questa ispirazione in The Irishman , il suo monumentale film drammatico sulla vita di Frank Sheeran (interpretato da Robert De Niro), un sicario della mafia che affermò di aver ucciso Jimmy Hoffa (interpretato da Al Pacino). Per Scorsese realizzare questo film non è stata un’impresa senza inquietudine — i suoi lavori, del resto, non lo sono mai — dato che ha combattuto a lungo contro l’idea di realizzare un ennesimo film ambientato nel mondo del crimine organizzato e in seguito ha tentennato prima di portare avanti il progetto con Netflix invece che con una produzione cinematografica tradizionale. A obbligarlo a mettere da parte le indecisioni è stata una storia di portata e contenuti che superano di gran lunga quelli diQuei bravi ragazzi o Casinò , e che racconta gli anni del declino della vita di Sheeran, quando si ritrova solo e riflette sull’etica delle sue azioni. Sapendo di usare parole che avranno una forte eco ben al di là del film The Irishman , Scorsese dice: «Tutto dipende dagli ultimi giorni di vita. È il nostro ultimo atto».
(...) Ma resta profondamente coinvolto nella sua carriera dopo più di mezzo secolo e, nonostante The Irishman possa costituire un finale eccellente, non ha certo intenzione di fermarsi qui. Dice che a motivarlo, adesso, non è la paura della morte, ma l’aver accettato che la morte riguarda tutti, e l’averlo compreso gli offre nuove prospettive: «Come dicono nel mio film, “La morte è quello che è”, devi accettarla».
Proprio come Scorsese stesso, la sua casa è un monumento vivente alla regia cinematografica. Se si esclude l’imponente ritratto, appeso sul caminetto, del governatore Morris, uno dei Padri Fondatori e antenato di sua moglie Helen, le cose più vistose che lo circondano sono enormi poster dei film di Jean Cocteau e Jean Renoir che ha amato di più, tra cui tre manifesti di La grande illusione. Dall’altra parte del corridoio, nella sala da pranzo, ha montato intere sequenze di The Irishman, Silence e The Wolf of Wall Street. Scorsese rivive in continuazione questa storia, racconta di quanto gli piacque Quarto potere quando, anni fa, lo vide in un’edizione televisiva rovinata, o quanto rimase sbigottito quando John Cassavetes, suo idolo e mentore, ricevette quella che sembrò una somma astronomica (un milione di dollari) per girare per la Columbia Pictures Mariti , il suo film drammatico del 1970 sulla crisi maschile della mezza età.
(...) Scorsese ha ricordi molto vivi anche della sua infanzia: è cresciuto a Little Italy, dove la sua formazione è stata influenzata da varie persone, tra cui i suoi genitori, i preti cattolici del quartiere e i delinquenti che più avanti gli avrebbero ispirato opere come Mean streets . I suoi film degli anni passati avevano la tendenza a esaltare i criminali e la violenza di cui si macchiavano e, a questo proposito, il regista commenta: «Beh, erano figure esaltanti e affascinanti, non è vero? Quando si è giovani e stupidi, e molte persone lo sono, si tende a considerare così i delinquenti. Per me era così».
La sua gioventù è stata, per così dire, una forma di iniziazione alla cultura della morte. Faceva il chierichetto durante le messe funebri nella chiesa di St. Patrick («la mia canzone preferita era Dies Irae» dice) e dava una mano a un amico incaricato di allestire le composizioni di fiori per le esequie. Da adolescente ha perso due amici a distanza di poco tempo — uno di cancro, l’altro per un incidente — e uno dei servizi funebri ai quali ha partecipato, in un cimitero accanto a una fabbrica, ha lasciato in lui un’impressione indelebile. «Mi sono chiesto: “È così che ci si riduce?”» ricorda. «Ci ritroviamo a essere ficcati sottoterra da qualche parte, in un minuscolo appezzamento di terreno nel Queens, in uno scenario così brutto e squallido? Per me quello fu un vero shock, una sorta di risveglio. Non ne sono tanto sicuro, ma credo che mi abbia spinto a un cambiamento».
Avere un occhio speciale per i dettagli macabri e oltre a ciò la determinazione a riprodurli con precisione è servito molto a Scorsese, ma a un certo punto — quando girava la storia di mafiosi e scommesse Casinò ambientata a Las Vegas (1995), e in particolare la scena in cui il personaggio interpretato da Joe Pesci è picchiato a morte e sepolto in un campo di mais — il regista ha iniziato a chiedersi se non avesse esagerato. E ricorda: «Mi sono detto che non potevo andare ancora avanti così».
Nei vent’anni successivi, il regista per lo più ha evitato progetti cinematografici drammatici ambientati nel mondo del crimine organizzato. Con l’eccezione di The Departed, il film che alla fine gli è valso un premio Oscar. A prescindere dalla tematica del film, però, Scorsese ha raccontato di essersi sentito logorato da quei lavori, soprattutto quando si avvicinavano alla conclusione e lui si ritrovava come sempre a litigare con i dirigenti delle produzioni che volevano accorciare la durata dei film. Scorsese ricorda che «nelle ultime due settimane di montaggio di The Aviator », una coproduzione che coinvolgeva Warner Bros e Miramax oltre ad altri, «ho abbandonato il lavoro per stress. Ho detto loro che se quello era l’unico modo per fare film, allora non ne avrei più fatti».
Non ha abbandonato il suo mestiere per sempre, però. Anzi, si è rivolto sempre più spesso a finanziatori indipendenti per ottenere sostegno per i suoi progetti, credendo seriamente che ormai le case cinematografiche e lui fossero diventati nemici mortali. «È un po’ come trovarsi chiusi in un bunker e sparare in tutte le direzioni: a un certo punto ti rendi conto che non si sta più parlando la stessa lingua, e quindi che non puoi più fare film».
Quando De Niro lo ha contattato con il materiale che ha ispirato The Irishman inizialmente Scorsese ha esitato: «L’ho visto come un pericolo», ha detto, temendo che nel suo curriculum potesse figurare soltanto come l’ennesima opera drammatica sulla mafia. (...) Il film, piuttosto, gli avrebbe permesso di parlare «della vita e dell’esistenza, tramite il lavoro che si poteva fare… Si poteva metterla in scena e farla interpretare dagli attori». Inoltre, non ha resistito alla tentazione di raccontare la storia di criminali la cui lunga vita è diventata una maledizione che ha finito col corrodere le loro anime. Ha citato anche un verso del brano Jungleland di Bruce Springsteen che dice: «“Si ritrovano feriti, nemmeno morti”, ed è di gran lunga peggio, in un certo senso».
(...) Scorsese vede il mondo cambiare attorno a lui, diventargli sempre meno familiare in modo sia sottile sia sostanziale. Ha accettato con gratitudine un contratto con Netflix che ha coperto il budget di The Irishman per 160 milioni di dollari, da quel che si dice, ma nell’accordo “è previsto che dopo una distribuzione limitata nelle sale cinematografiche, l’opera sia trasmessa sulla piattaforma streaming di Netflix”. Questo significa che alcuni spettatori vedranno il film di ben tre ore e mezza in più sedute, invece che in una sola, come il suo regista avrebbe voluto che fosse. Ma Martin Scorsese ha precisato che preferisce che The Irishman sia disponibile per tutti in qualsiasi modo e in qualsiasi forma piuttosto che non esserlo. «Ho pensato che anche se dovesse essere proiettato all’angolo di una strada, forse un giorno entrerà a far parte di una retrospettiva. L’ho pensato sul serio».
Netflix ha detto che nella prima settimana di programmazione sulla piattaforma The Irishman è stato visto da più di 26,4 milioni di account. Ma il regno degli smartphone, dei tablet e dei dispositivi che usano lo streaming resta in buona parte invisibile a Scorsese.
Descrivendo con sarcasmo la sua realtà quotidiana, il regista dice: «Esco, mi ficcano in macchina, mi portano da qualche parte, mi fanno scendere, mi mettono a tavola, mi portano in una stanza, qualcuno mi parla, io rispondo di sì, poi torno a casa e cerco di entrare dalla porta senza che i cani mi saltino addosso facendo i matti».
Scorsese è capace di adattarsi ed evolversi: nel suo quinto matrimonio (è sposato a Helen dal 1999), quest’uomo descritto come tutto fulmini e tempesta dice di essere un tranquillo uomo di casa. La coppia ha una figlia, Francesca, e Scorsese ne ha altre due, Cathy e Domenica, avute da due matrimoni precedenti. In ogni caso, se avete seguito le sue recenti dichiarazioni sui film della Marvel — che a suo dire, in un’intervista pubblicata nell’ottobre scorso sulla rivista Empire, “non sono cinema” ma più simili a “parchi a tema” — saprete anche che Scorsese non è certo una mammo-letta. (A novembre ha continuato a esprimere le sue rimostranze in un editoriale pubblicato dal New York Times).
(...) Il regista è stato ripreso anche dai critici e da altri che hanno detto che i personaggi femminili di The Irishman non sono ben definiti e realizzati bene, ed esistono soltanto per fare da contrappeso ai personaggi maschili. Lui è consapevole del dibattito che si agita sui personaggi femminili dei suoi film, e ammette che The Irishman è un’opera molto particolare, un po’ atipica, non rappresentativa dei suoi lavori.
Emma Tillinger Koskoff, presidente della produzione per la Sikelia Productions di Scorsese, lavora con lui da più di dieci anni, e respinge con veemenza la critica secondo la quale il regista avrebbe messo sempre le donne in secondo piano. «Dire una cosa del genere è da sciocchi », afferma, aggiungendo che il regista «ha creato alcuni dei più grandi personaggi femminili della storia del cinema». Cita quindi le figure interpretate da Ellen Burstyn in Alice non abita più qui, da Lorraine Bracco in Quei bravi ragazzi, da Jessica Lange e Juliette Lewis in Cape Fear, da Sharon Stone in Casinò, e altre ancora.
(...) Scorsese è prudente quando gli si chiede quali film del 2019 gli siano piaciuti, dicendo di doverne vedere ancora molti, anche se racconta di aver visto e amato molto Parasite di Bong Joon-Ho. E sa anche che Joker contiene molti omaggi alle sue opere — dice di aver rinunciato alla richiesta di contribuire a produrlo, sebbene Koskoff abbia lavorato al film — ma non ha fretta di vederlo: «Ne ho visti alcuni spezzoni, quindi, che altro mi serve? Ho capito. Va bene».
Malgrado la sua dichiarata avversione, Scorsese tornerà di nuovo negli studi cinematografici di Hollywood per il suo prossimo film, Killers of the flower moon, un adattamento del film non-fiction di David Grann sullo sterminio degli indiani Osage nell’Oklahoma degli anni Venti, che sarà finanziato da Paramount.
Le altre aspirazioni di Scorsese non hanno nulla a che vedere con la regia. «Mi piacerebbe prendermi un anno di tempo per leggere e basta. Per ascoltare musica quando ne sento la necessità. Per stare con gli amici. Perché ce ne stiamo andando tutti… Gli amici muoiono. I familiari muoiono». Uno degli ostacoli che si frappongono alla realizzazione di questo desiderio, però, continua, è lui stesso, come anche l’impulso che lo obbliga a raccontare storie con il mezzo che conosce meglio. «Se leggo un libro o incontro una persona penso sempre: “Ecco, ne farò un film”» spiega. «In passato ho pottuto farlo, ora le possibilità si stanno assottigliando».
Poi, ovviamente, c’è anche l’altro limite supremo, la morte. Ma, proprio perché la morte non è conoscibile né negoziabile, non significa che non valga la pena misurarsi contro di essa ogni giorno: «Il problema è che il tempo è limitato. Le energie sono limitate. Anche la testa, naturalmente. Per fortuna, la curiosità no».
(Traduzione di Anna Bissanti ©2020, The New York Times)