Corriere della Sera, 4 gennaio 2020
Biografia di Francesca Calissoni raccontata da lei stessa
Alla costumista di Sotto il vestito niente, che ebbe come testimone di nozze il regista Carlo Vanzina, si solleva per sbaglio la manica della camicia: il polso sinistro reca tatuata una «v» maiuscola, quella che nel marchio di Bulgari rappresenta la «u». «Nessun legame: è il numero romano del mio giorno di nascita», si affretta a precisare Francesca Calissoni, eclettica pi erre. Non si può dire che la secondogenita di Anna Bulgari abbia mai approfittato del cognome di sua madre, l’erede della dinastia di gioiellieri che il 19 novembre 1983 fu rapita dall’anonima sarda con il figlio Giorgio, 17 anni, al quale i banditi recisero l’orecchio destro per affrettare il pagamento del riscatto. Non ne aveva bisogno. Nel suo moto perpetuo ha sempre incrociato le celebrità per caso, indipendentemente dal lignaggio. Come quella volta che nel 1988, incordata con la stilista Chiara Boni a 4.000 metri di quota fra Kashmir e Ladakh, al Passo di Zoji, su una delle dieci strade più pericolose del pianeta, si vide venire incontro la regina della moda Gloria Vanderbilt, con il figlio del proprietario di Hermès, Xavier, «e un Rothschild di cui non ricordo il nome», e finirono a fare bisboccia per lo scampato pericolo. O come quando, giovanissima interior designer a Los Angeles, abbandonata una cena che Franco Zeffirelli dava in onore di Carla Fracci, restò in panne con due amiche sulla sua Datsun verde, abbassò il finestrino e urlò all’attore Jack Nicholson: «A Jack, dacce ’na spinta!».
Ma lei sapeva chi era?
«Be’, certo. Eravamo uscite apposta dal Dorothy Chandler Pavilion degli Oscar per vedere dove andava a infrattarsi con un’italiana che stava inseguendo. L’avevo conosciuto attraverso un amico produttore, Daniele Senatore. Da un anno stavo arredando una villa a mezzo chilometro da quella in cui fu massacrata Sharon Tate. Una casa straordinaria. Ci ha abitato Julio Iglesias, che le ha pure dedicato un album, 1100 Bel Air Place. Poi passò a Quincy Jones. Una sera Nicholson ci telefonò: “Come here”. Andammo. Da quel momento ribattezzò me e le mie amiche The Musketeers, le tre moschettiere».
Perché si era trasferita a Hollywood?
«Avevo 21 anni, ero una ribelle. Mio padre, il generale Franco Calissoni, eroe di El Alamein, era un tipo all’antica, severissimo. In casa non si respirava».
E sua madre?
«Fa 93 anni questo mese (domani, ndr). Si occupava di orafi, gemme preziose, maestri argentieri. Sa a memoria la Divina Commedia. Con il padre Costantino, primogenito dei cinque figli di Sotirio Bulgari, giunto in Italia dall’Epiro nel 1879, parlava in greco. Non le dico delle due Pasque, cattolica e ortodossa, cerimonie che non finivano mai. Il 7 aprile 1977 me ne andai. In tasca avrò avuto 200.000 lire».
Quando ritornò in Italia?
«Nel 1979. Ero molto amica di Egon von Fürstenberg. Una sera di febbraio, a Cortina, sua madre Clara Agnelli m’invitò a cena: “Ci sarà uno stilista emergente”. Era Gianni Versace, che alla fine mi chiese: “Che fai nella vita?”. Niente, replicai. “Allora vieni a lavorare per me a Milano”. Ospite nella sua casa di via del Gesù, dopo che aveva superato una grave malattia, gli chiesi: come hai fatto a creare un simile impero? Rispose: “Controllo anche le 1.000 lire che escono dalla cassa”. Poi, rivolto a mio marito, disse: “Tienitela stretta questa donna. È l’unica che conosco capace di far ridere”».
Chi è suo marito?
«Alessandro Feroldi, giornalista. Da giovane dava lezioni di latino, greco e musica ai figli dei nobili, dai Colonna agli Orsini. Intervistò per primo Fabrizio De André, conquistandolo con una telefonata: “Scusi, perché nel Testamento di Tito in quel si bemolle non mette la settima diminuita?”. A Faber si aprì il cuore: “Vieni e porta la chitarra”. Il colloquio durò un giorno. Credo che Alessandro fosse l’unico assunto al Tg1 grazie a una lettera inviata al direttore. Albino Longhi lo convocò: “Voglio vederti in faccia”».
E dopo Versace che fece?
«Pubbliche relazioni e pianificazione pubblicitaria per Nicola Trussardi. Con lui non c’erano orari, né sabati o domeniche. Pilotava personalmente il suo aereo privato. Certe virate su Orio al Serio... Si voltava verso di me e mi vedeva con le mani giunte: “Dorme?”. E io: no, prego. La mia specialità erano le piantine delle sfilate: riuscivo a evitare che le grandi firme della moda si pestassero i piedi».
Non poteva seguire la maison Bulgari?
«Con mia sorella Laura e la figlia del famoso chirurgo Pietro Valdoni ho lavorato per la griffe Marina B, cioè mia zia Marina Bulgari, la migliore disegnatrice di gioielli moderni. Poi ho vissuto per 15 anni in simbiosi con Leonardo Mondadori. Fu padrino di battesimo della mia primogenita Anna. Mi diede da gestire la rinata libreria Einaudi in Galleria Manzoni a Milano. A ogni weekend eravamo in una capitale. Ricordo un incontro con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. All’uscita dall’hotel King David di Gerusalemme ci additò le vicine alture: “Vedete? Ci sono cecchini che da lassù possono farmi fuori in questo istante”».
La passione per i libri le è rimasta?
«Non mi addormento senza averne uno in mano. Uno dei miei preferiti è La città dei ladri di David Benioff. Mi è capitato di far vincere un premio Strega».
Addirittura. A chi?
«A Domenico Rea con Ninfa plebea. Allora abitavo in una casa nel boschetto fra la Casina Valadier e l’hotel de Russie. Organizzai un party sul giardino pensile, con giurati e ospiti illustri, come Raffaele La Capria. Il colpo di scena finale fu una torta a forma di Vesuvio ordinata al pasticciere Natalizi: dalla bocca di panna del vulcano usciva il fuoco».
È nota anche per inventiva semantica.
«Solo perché una volta mi capitò di definire torpigna, da Torpignattara, una persona sgradevole. La parola è entrata nel lessico del generone romano».
Chi sarebbe un torpigna?
«Il compianto Carlo Vanzina, che per primo adottò il mio neologismo, lo individuava in chi deambula su e giù per il Corso, con jeans a sbracaloni, scarpone da tennis, felpa e orecchino, una specie di Maurizio Arena che sulla spiaggia di Ostia sfoggia il costume alla Tarzan. Un po’ macho e un po’ romantico. Latin lover e bello de’ mamma, squattrinato».
Dicono che sia un’imbattibile podista.
«Confermo. Mi hanno ribattezzata “il sindaco di Cortina”: non c’è sentiero di montagna che non conosca. Un anno fa, con mia figlia Diletta, mi sono fatta a piedi Perù, Bolivia e Cile, sempre in quota, tra i 4.000 e i 5.000. In Patagonia abbiamo incontrato Matthew McConaughey, con il quale ho attaccato bottone perché suo figlio stava giocando a Candy Crush, il mio gioco preferito sul telefonino. Siamo stati tutta la sera a cazzeggiare».
Mi pare in fuga perenne da un cognome che pesa quanto Tiffany e Cartier.
«Guardi, a parte due spille antiche, i miei unici gioielli sono gli 11.000 ulivi della tenuta Calissoni Bulgari di Aprilia. Mia sorella Laura, alla quale sono legatissima, mi ha chiesto di occuparmene. Erano 8 ettari che i nostri genitori, sgobbando giorno e notte, hanno bonificato e portato a 60. Oggi è un’oasi faunistica con aironi, falchi, poiane, istrici, volpi, cinghiali, protetta dalla Guardia forestale. È una gioia vederci arrivare le scolaresche. Ho fatto mio il motto di mamma: “In olea aurum”. L’oro è nell’ulivo».
Ospita anche un museo dedicato alla battaglia di Anzio.
«Ogni anno vi celebriamo lo Sbarco. Sulle nostre terre si attestarono gli inglesi. Roger Waters, il cofondatore dei Pink Floyd, ignorava che il padre Eric Fletcher cadde in battaglia a un chilometro dal cancello della tenuta, il 18 febbraio 1944, quando lui aveva solo 5 mesi. Ci è venuto in pellegrinaggio. È stato come abbattere The Wall, il muro della sua esistenza».
Non è stufa di fare vita di società?
«Sì. La società si è involgarita. Non è più come ai primi tempi di Porto Rotondo, quando da Luigino Donà dalle Rose trovavi Paul McCartney e Shirley Bassey e ci conoscevamo tutti. O come quando nella villa Godilonda di mio nonno Costantino, a Castiglioncello, venivano a pranzo Alberto Sordi, Marcello Mastroianni, Steno e Giovanni Spadolini. Oggi, ovunque vado, trovo solo torpigna».
Come seppe che sua madre Anna e suo fratello Giorgio erano stati rapiti?
«Dalla tv. Ero a Milano con Teo Teocoli. Da allora soffro l’inverno, le giornate corte, il freddo, il Natale. Non può capire che cosa significhi aspettare per settimane senza sapere se rivedrai i tuoi cari. Otto anni prima avevano sequestrato mio zio, Gianni Bulgari».
Chi vi fu più vicino in quella tragedia?
«Non certo i politici. Come presidente degli antiquari di via Condotti, mia madre ogni anno, l’8 dicembre, era solita regalare un’icona a Giovanni Paolo II che andava a deporre la corona di fiori ai piedi dell’Immacolata a piazza di Spagna. L’auto papale si fermò a largo Goldoni. Mio padre disse a Karol Wojtyla: “Mi spiace, Santità, sono qui da solo con Laura e Francesca, perché mia moglie e mio figlio non potevano venire”. Non dimenticherò mai più gli occhi azzurri, profondi, di quel sant’uomo mentre ci fissava e ci chiedeva: “Che cosa è successo?”. Due anni fa ho voluto ripercorrere la sua vita partendo da Cracovia. A Danzica correvo sotto un diluvio. Mi sono riparata nel museo di Solidarnosc: il soffitto è fatto con i caschi degli operai dei cantieri navali. Lì ho capito tutto di lui».
Giorgio Forattini disegnò una vignetta: la carta d’Italia con un orecchio amputato al posto della Sardegna.
«Fu triste. Allora non lo conoscevo, oggi è un caro amico. Non gliel’ho mai rimproverato. Vorrei la cattedra universitaria di pesce in barile. Campi meglio».