4 gennaio 2020
Biografia di Qassem Soleimani
Lorenzo Cremonesi e Viviana Mazza, Corriere della Sera
Era il vero architetto della politica estera dell’Iran, colui che per oltre vent’anni ha tenuto viva la Rivoluzione islamica per la Guida Suprema Ali Khamenei. Tanto da essere un favorito per le massime cariche dello Stato nel prossimo futuro. Qassem Soleimani «non era un generale in missione, era la missione», ha scritto la studiosa Kim Ghattas.
Nato nel 1957 nel villaggio di Rabor, nell’est dell’Iran, trascorre l’infanzia tra le montagne, in una famiglia contadina. A 13 anni è operaio, per ripagare un debito contratto dal padre sotto lo Scià, quindi impiegato nella gestione del sistema idrico. Taciturno, riservato, rappresenta la recluta ideale per le falangi di volontari che nel 1979, proprio dalle campagne più remote, si uniscono ai ranghi delle Guardiani della Rivoluzione che garantiscono al movimento dell’Ayatollah Khomeini di rovesciare lo Scià Reza Pahlavi, battere nel sangue l’opposizione liberale e comunista e, infine, prendere il potere.
Da giovane partecipa alla repressione dei curdi iraniani, nella guerra Iran-Iraq degli anni 80 si conquista meriti e rispetto. Mandato in ricognizione oltre confine, lo chiamano il «ladro di capre» perché ne ruba una ogni volta per arrostirla con i compagni. Appena ventenne, diventa comandante di divisione. Si distingue anche per la sua opposizione alle «morti senza significato»: le terribilmente celebri ondate di giovani combattenti mandati a correre sui campi minati verso le trincee nemiche per spianare la strada alle truppe corazzate (l’Iran perse oltre un milione di soldati). Si dice che allora sia caduto in disgrazia presso Hashemi Rafsanjani, presidente dal 1989 al 1997. Nel 1998, però, viene nominato comandante delle forze Al Quds: il fiore all’occhiello delle truppe d’élite, con sede nell’ex ambasciata Usa a Teheran. Da allora la sua stella non cessa di brillare. Arma gli alleati, elimina i rivali, dirige una rete di miliziani che uccidono centinaia di americani in Iraq – ma con gli americani all’occorrenza sa trattare.
Agisce nell’ombra. In pubblico evita di farsi baciare la mano. Bassino, definisce se stesso «il più piccolo dei soldati». Ascolta più che parlare, sedendosi in un angolo, che diventa inevitabilmente il centro della stanza. A Teheran conduce vita da burocrate di mezza età – sveglia alle 4, a letto alle 21, problemi di prostata, fedele alla moglie in chador, preoccupato per una dei cinque figli, Nargis, che «si sta allontanando dall’Islam». «È l’operatore più potente del Medio Oriente ma nessuno sa chi sia», dice un’agente della Cia a Dexter Filkins, autore di un famoso ritratto per il New Yorker.
È stato Soleimani a coltivare i rapporti con l’Hezbollah, il «Partito di Dio» che rappresenta il braccio armato degli sciiti libanesi. Dopo l’invasione americana in Iraq nel 2003, è ancora lui a costruire le brigate sciite che poi, tra il 2014 e 2017, paradossalmente combatteranno spalla a spalla con le truppe americane contro l’Isis. Questo perché «Hajj Qassem», come lo chiamano i suoi uomini, è un pragmatico: dopo l’11 settembre propone agli americani di distruggere insieme i talebani, ma l’accordo salta nel 2002, quando George W. Bush inserisce l’Iran nell’«Asse del Male». Dai leader dei curdi iracheni è rispettato e temuto (l’Iran diede loro rifugio durante la guerra con Saddam) anche se mira a mantenere l’Iraq diviso. Negli anni Ottanta ha imparato due lezioni: la Repubblica Islamica è circondata da nemici aiutati dagli americani (anche i suoi uomini furono colpiti con armi chimiche); e allo scontro diretto è preferibile la guerra asimmetrica.
In seguito, diventa l’uomo chiave del sostegno iraniano al regime di Bashar Assad contro le rivolte scoppiate nel 2011. Vola a Damasco con tale frequenza che si dice gestisca lui la guerra. Costruisce le brigate di Hezbollah al tempo delle grandi battaglie per Aleppo, ben prima dell’arrivo dei russi; manda gli sciiti libanesi e persino afghani in aiuto a Bashar: «Gli iraniani – dice – non abbandonano gli amici come fanno gli americani».
Le Forze Quds operano dalla Thailandia alla Nigeria, ma a volte lontano da casa perdono in precisione: nel 2011 tenta di reclutare i narcos messicani per assassinare l’ambasciatore saudita a Washington, ma il contatto si rivela un’agente Usa. Già nel 2007 gli americani premono sull’Onu perché venga inserito tra gli individui da sanzionare, poi c’è chi suggerisce di assassinarlo ma Bush e Obama lo evitano. Più volte è dato per morto. Nel 2006 sopravvive a un incidente aereo, nel 2012 esce indenne dagli attentati contro i vertici militari siriani.
Molti iraniani – e molti sciiti – lo considerano un eroe, difensore della sicurezza nazionale, vittorioso su Al Qaeda e l’Isis. C’è chi però ricorda che, durante le proteste studentesche del 1999, con altri Guardiani ordinò al presidente riformista Khatami di riportare l’ordine «o la nostra pazienza si esaurirà». Secondo l’ex ambasciatore Usa in Iraq Ryan Crocker, che trattò con lui, non era la religione a guidarlo, ma «il nazionalismo e l’amore per la battaglia». In cima a un promontorio al confine con l’Iraq, disse: «La gente pensa al paradiso come un luogo di fiumi e belle donne, ma c’è un altro tipo di paradiso, il campo di battaglia». Forse sono stati anche video celebrativi come questo, che negli ultimi anni gli hanno dato notorietà, a trasformarlo in un bersaglio.
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Vincenzo Nigro, la Repubblica
Un “martire vivente”. Nel mese di febbraio del 2019 il generale Qassem Soleimani era stato ricevuto dalla Guida Suprema iraniana Ali Khamenei. Davanti ai comandanti dei Pasdaran, la Guida gli aveva appuntato sul petto la medaglia dell’Ordine di Zolfaghar. La più alta onorificenza iraniana, mai attribuita a un comandante militare. Khamenei aveva detto parole che oggi si trasformano in coltelli di ghiaccio: «La Repubblica Islamica avrà bisogno di lui per molti anni ancora: ma io spero che alla fine lui muoia come un martire…». Questo era Soleimani per l’Iran rivoluzionario, un martire vivente. A questo si era addestrato, per questo era stato impiegato ed era vissuto Soleimani, per difendere ed espandere l’area di sicurezza della Repubblica islamica.
Nato nel 1957 nella provincia di Karmand, figlio di un contadino, a 14 anni lascia la famiglia per andare a lavorare come muratore e ripagare un debito di 100 dollari del padre. Nel 1978 segue il movimento dei giovani che si uniscono alla Rivoluzione islamica e dopo pochi mesi entra a far parte della sterminata schiera di soldati-ragazzi che la Rivoluzione islamica inviò al fronte per bloccare l’invasione di Saddam Hussein. È la guerra Iran-Iraq, che sarà la prima palestra per giovane soldato: nelle trincee stile Prima guerra mondiale, Soleimani vive l’orrore di una guerra di massacri, di giovani e ragazzi mandati a ripulire i campi minati con i loro corpi.
Quella fu la prima e unica accademia militare di Soleimani, prima di passare ai Pasdaran ed entrare nella “Forza Quds” (Gerusalemme), l’unità dei Pasdaran che opera all’estero. Come ha detto l’ex capo del Mossad israeliano Tamir Pardo, «la vita professionale di Soleimani si può dividere in due parti: nella prima, fino alla Primavere arabe, fa parte e poi comanda una unità semi-clandestina, la Forza Quds, che viene schierata fuori dai confini iraniani. Un’organizzazione di fatto segreta, che ha come scopo il terrorismo. Dopo le primavere arabe, con la guerra in Siria e con la minaccia dell’Isis in Iraq, Soleimani diventa un leader regionale, che combatte in ogni modo per difendere apertamente gli interessi dell’Iran».
In quella prima parte della vita professionale di Soleimani entrano le sue operazioni nel Libano del Sud, negli anni Novanta, quelle che porteranno alla creazione e al rafforzamento di Hezbollah, il partito-milizia libanese. Una guerriglia di attrito che alla fine indurrà Israele a decidere che è diventato troppo costoso mantenere l’occupazione: nel 2000 Gerusalemme si ritira dal Libano, anche grazie a quella guerriglia organizzata da Qassem Soleimani e dai suoi colleghi libanesi.
Lo ritroviamo dopo l’11 settembre del 2001 a contrastare Al Qaeda, che in Afghanistan è accolta e protetta dai talebani sunniti. Sembra che per un momento Stati Uniti e Iran possano riavvicinarsi. Durerà poco. Presto Soleimani si trova a dirigere, contro l’America, la prima operazione di successo totale della sua vita professionale: con l’invasione americana dell’Iraq nel 2003, Teheran ha un solo obiettivo. Indebolire il prima possibile gli americani, indurli a ritirarsi, ma contemporaneamente non permettere che un governo iracheno possa essere mai più una minaccia per l’Iran. Anzi fare di tutto perché l’Iraq diventi un vassallo di Teheran. Per anni con bombe, attentati, cecchini, Soleimani conduce una guerriglia contro gli americani che farà centinaia di morti tra i marines.
Ed è proprio questo di Bagdad il fronte su cui il generale ha perso la vita l’altra notte. Un fronte che da anni per lui si era unito al teatro siriano, quello della guerra che Soleimani ha combattuto fino all’ultimo uomo pur di salvare l’alleato Bashar Assad. Altra vittoria clamorosa, che ha protetto l’Iran dall’espansione dell’Isis, e anzi ha permesso alla Repubblica islamica di estendere definitivamente la sua area di influenza alla Siria, un paese che confina con il nemico Israele e con il territorio.
In Siria, come in Iraq, Soleimani era il rappresentante assoluto, totale dell’Iran. Contemporaneamente il capo politico, diplomatico, militare e dei servizi segreti. Quando nel 2008 il generale David Petraeus, comandante militare Usa in Iraq, decise di stabilire un contatto con lui, Soleimani fece arrivare un sms sul cellulare di un iracheno che stava per incontrare l’americano. Petraeus prese in mano il telefono, lesse il messaggio: «Generale Petraeus, lei deve sapere che io, Qassem Soleimani, controllo la politica dell’Iran per l’Iraq, per il Libano, per Gaza e l’Afghanistan. L’ambasciatore a Bagdad è un uomo della mia Forza Quds, e l’ambasciatore che lo sostituirà è un uomo della Forza Quds».
Questo è l’uomo che i missili di Donald Trump hanno fermato nella sua marcia trionfale attraverso i territori del Medio Oriente. Ieri la moglie gli ha rivolto un elogio funebre definitivo: «Sei andato in cerca del martirio sulle montagne e nei deserti. E alla fine il martirio ti ha aperto le braccia. Questa bandiera non cadrà a terra, mio Generale! ». Il martire vivente ha trovato il suo martirio.
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Giordano Stabile, La Stampa
Forse un giorno sapremo se Qassem Soleimani è andato incontro ai droni americani con sprezzo della morte, deciso a portare fino in fondo la sua missione, o se è stato tradito da un eccesso di presunzione. Passare a 400 metri da una delle basi americane più importanti in Iraq, nel momento di massima tensione fra Stati Uniti e Iran, è stato troppo anche per la Volpe della Mesopotamia, «la persona più potente in Medio Oriente», come l’ha definito un agente della Cia di lungo corso, John Maguire. La linea fra eroismo ed eccesso di confidenza è sottile, e il generale iraniano l’aveva superata più volte. In due occasioni era finito nel mirino dei missili israeliani, nel 2008 e nel 2015, ed era stato salvato dagli stessi americani, che temevano l’esplosione di un caos incontrollato.
Ma se 5 o 12 anni fa uccidere Suleimani avrebbe avuto conseguenze incontrollabili, adesso è peggio. Il comandante delle forze speciali dei Pasdaran era il terzo uomo nella gerarchia della Repubblica islamica, dopo la guida suprema Ali Khamenei e il presidente Hassan Rohani. Gestiva la politica estera fattuale, mentre al suo rivale, il capo della diplomazia Javad Zarif, era lasciato il compito di gestire i rapporti con l’Occidente. Dai toni dimessi, la divisa semplice, senza medaglie sul petto, Suleimani era il leader sciita più popolare, sia in Iran, dove l’83% dei cittadini ne aveva una opinione favorevole, che in Iraq. Per questo era proiettato verso le presidenziali del 2021, dove con tutta probabilità avrebbe sfidato il riformista Zarif.
Soleimani, classe 1957, ha attraversato tutta la storia della Repubblica islamica. Rivoluzionario ventenne nel 1979, volontario nella guerra con l’Iraq, arriva alla guida delle Forze Al-Quds nel 1996, comincia la sua scalata con l’idea folgorante di militarizzare le minoranze sciite nel Levante arabo per trasformarle in uno strumento del potere iraniano e conquistare la Mezzaluna sciita, fino al Mediterraneo. Il primo embrione è la nascita di Hezbollah nel 1982, in Libano, ma il generale perfeziona l’intuizione via via che sale nella gerarchia dei Pasdaran. La grande occasione è lo sbriciolamento dell’Iraq di Saddam Hussein. Soleimani ci vede lo spalancarsi delle porte della Mesopotamia e ha la seconda intuizione. Di fronte all’irruzione dell’esercito più potente del mondo, quello statunitense, sviluppa la «guerra ibrida», un misto di guerriglia, attentati, azione propagandistica, uso delle tecnologie avanzate, missili ad alta precisione e droni. Un mix difficile da contrastare, come si è visto nell’attacco agli impianti petroliferi sauditi del 14 settembre.
Le milizie sciite libanesi, siriane e irachene si dimostrano in grado di sfidare le forze americane e gli avversari dell’Iran, su tutti l’Arabia Saudita del principe ereditario Mohammed bin Salman e Israele. Suleimani perfeziona la sua guerra ibrida in Iraq e soprattutto in Siria, dove coglie il successo che lo proietta allo zenit. L’intervento dell’Hezbollah libanese e poi dell’Hashd al-Shaabi iracheno cambiano le sorti del conflitto. L’esercito siriano viene integrato da milizie agli ordini dei Pasdaran. Soleimani convince i russi che Bashar al-Assad può vincere. Vladimir Putin lo invita al Cremlino. È la consacrazione. E la sua condanna. Benjamin Netanyahu lo indica a Barack Obama poi a Donald Trump come «l’uomo più pericoloso».
Se ha commesso un errore, è stato non capire la logica che guida il nuovo inquilino della Casa Bianca. La designazione dei Pasdaran come «organizzazione terroristica» lo indigna, ma rifiuta di considerarsi alla stregua del califfo Al-Baghdadi. Soleimani è deciso a ribattere colpo su colpo e a raggiungere il suo obiettivo strategico, la cacciata degli americani dal Levante arabo e dal Golfo. Il ritiro dalla Siria deciso dalla Casa Bianca sembra confortarlo. Forte della sua popolarità, si sente invincibile. Ha ai suoi ordini, oltre ai 20 mila iraniani delle Forze Al-Quds, almeno 100 mila iracheni delle Hashd al-Shaabi, decine di migliaia di siriani, libanesi e persino afghani e pachistani. Per Soleimani era inconcepibile essere trattato come un Osama bin Laden. Un limite che ha segnato la sua sorte.
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Fausto Biloslavo, il Giornale
Il «Rommel» iraniano ha trovato il suo destino, che aveva annunciato da tempo: «Il martirio è quello che cerco fra valli, montagne e deserti». Qassem Soleimani, il più carismatico generale dei Pasdaran era il comandante della brigata Al Qods, «Gerusalemme», obiettivo finale degli ayatollah. Un reparto di élite di 15mila uomini specializzati in operazione all’estero, che Soleimani ha usato in maniera spregiudicata soprattutto in Iraq, Siria, Libano e Yemen per espandere l’influenza sciita.
Nato nel 1957 in una famiglia povera e contadina dell’Iran profondo e religioso, a soli 22 anni ha partecipato alla rivoluzione islamica dell’ayatollah Khomeini e subito dopo si è distinto sul fronte della lunga e sanguinosa guerra Iran-Iraq. Soprannominato «comandante ombra» per il suo carattere introverso e le scarse dichiarazioni pubbliche ha guidato negli ultimi 20 anni la brigata Al Qods. Basso di statura, barba e capelli argento ha sempre goduto della fama di invincibile e incorruttibile. La guida suprema, Alì Khamenei, era legato al generale non solo dal rapporto gerarchico, ma da una sincera amicizia. A tal punto che il grande ayatollah ha officiato il matrimonio della figlia di Soleimani. La vedova, irriducibile come il marito, ieri ha dichiarato: «Sei andato in cerca del martirio, che infine ti ha aperto le braccia. Questa bandiera non cadrà a terra, mio Generale». Gli americani lo avevano già individuato come minaccia durante l’invasione dell’Iraq del 2003, ma Soleimani ha iniziato a farsi conoscere agli occhi del mondo negli ultimi anni. In Libano ha appoggiato a spada tratta gli Hezbollah, il partito armato sciita. In Siria ha salvato dal tracollo il regime di Bashar Assad inviando migliaia di volontari a combattere contro i ribelli jihadisti sunniti. E sempre il Rommel iraniano ha convinto i russi a intervenire con i bombardamenti che hanno ribaltato le sorti della guerra. In Iraq è stato lo stratega della rivincita contro lo Stato islamico schierando le milizie sciite al fianco dell’esercito. Nello Yemen ha fornito ai ribelli sciiti i consiglieri e i missili lanciati contro l’Arabia Saudita. Nemico numero uno di Israele, ha schierato i suoi Pasdaran sul versante siriano di fronte alle alture del Golan e rifornito di armi i palestinesi di Hamas. Lo scorso anno aveva pubblicamente dichiarato: «Voglio spazzare via l’entità sionista», ovvero lo Stato ebraico. L’alto ufficiale iraniano amava spuntare in prima linea scattando selfie in mezzo ai seguaci. A Tikrit, città natale di Saddam Hussein, ha guidato la riscossa contro l’Isis senza disdegnare l’appoggio aereo americano. Soleimani ha comandato anche le operazioni per riconquistare Aleppo, la Milano siriana, che ha segnato il cambio di passo nel conflitto. In patria è diventato un mito a tal punto che si ipotizzava una sua candidatura alla presidenza dell’Iran. Non sono mancati contatti segreti con gli americani e messaggi di sfida al presidente americano Donald Trump: «Puoi iniziare una guerra, ma saremo noi a finirla».
Il suo grande successo strategico è la creazione, grazie alle milizie sciite, di un corridoio terrestre che per la prima volta collega l’Iran al Mediterraneo partendo dall’Iraq, attraverso la Siria e fino al Libano. Per questo motivo il quotidiano britannico Times lo aveva inserito, 24 ore prima della sua fine, fra i personaggi più influenti del mondo nel 2020 definendolo il «Machiavelli del Medioriente». Il 31 dicembre la firma dei militanti sciiti, che con lo spray rosso hanno scritto all’ingresso dell’ambasciata americana a Baghdad devastato dall’assalto, «Soleimani è il nostro capo», è stata la sua condanna a morte.