Corriere della Sera, 3 gennaio 2020
Storia dei vocaboli italiani
Nessuna lingua è un’isola. Questa è una frase molto poetica (John Donne scrisse che «nessun uomo è un’isola»), ma anche molto efficace per spazzar via eserciti di arcigni puristi. Le lingue si trasformano, vengono influenzate da altre lingue, si incrociano, si mescolano, subiscono pressioni di ogni genere. Per le lingue i concetti di muro o di respingimento o di porti chiusi non esistono, anche quando devono fare i conti con i divieti di un regime dittatoriale come accadde all’Italia mussoliniana. Luca Serianni, un maestro della linguistica e della storia della lingua italiana, ci conduce nel vasto panorama del nostro lessico, della sua formazione, delle mille contaminazioni, delle molte curiosità storiche: e lo fa con stile piacevole e piano, senza rigidità tecnico-accademiche, mettendo in campo una varietà notevole di esempi (attinti dalla letteratura, dai linguaggi settoriali e dalla cronaca dei giornali), qua e là con toni narrativi e argute invenzioni metaforiche. Come quella dell’isola. Dunque, l’italiano non è un’isola incontaminata. Il suo lessico, cioè l’insieme delle parole e delle locuzioni, è il prodotto di sedimentazioni storiche, di contatti geografici avvenuti nel tempo e di scambi ancora attivi. Ai vecchi prestiti da altre lingue, che hanno attecchito nei secoli (per esempio flacone viene dal francese settecentesco), si aggiungono i prestiti di oggi, quelli destinati a durare e altri più caduchi.
Serianni ci ricorda che il concetto di prestito, che si usa in linguistica, è imperfetto: perché se il prestito di denaro o di un oggetto prevede la restituzione, nel caso delle lingue non c’è riconsegna. Si dà, si riceve e basta. L’italiano ha dato tanto al mondo (basti pensare alle parole della musica) e dal mondo ha ricevuto migliaia di neologismi: sono innumerevoli gli esempi dei germanismi arrivati con le «invasioni barbariche» (guerra), dei francesismi quando la Francia era il paese più prestigioso del continente (giungono dalla mediazione francese nel Medioevo parole come mangiare, gioia, noia, speranza, coraggio…): si tratta di prestiti «adattati» cioè italianizzati (mocassino e taccuino hanno origini arabe). «Chi dice forestierismo oggi dice anglicismo»: quelle anglo-americane sono per lo più parole non adattate, specialmente tecnologiche (blog), rispetto alle quali l’italiano mostra una «debole reattività» (siamo o no esterofili?): il computer in Francia è ordinateur e in Spagna ordenador, il mouse è souris e ratón.
Un’altra immagine. Il lessico italiano potrebbe essere disegnato come una piramide. Alla base c’è il fiorentino antico, che si è imposto grazie al prestigio delle cosiddette Tre Corone (Dante, Petrarca, Boccaccio) e alla potenza dei mercanti e dei banchieri. Oltre ai prestiti (esogeni) ci sono formazioni interne al sistema (endogene), latinismi (l’italiano è il latino parlato dei nostri giorni), dialettalismi o regionalismi (che offrono un ventaglio ampio di termini enogastronomici). Naturalmente ciascuna di queste categorie ha esempi affascinanti e sorprendenti, perché in realtà la storia di ogni parola ha in sé una piccola trama romanzesca. Ed è ciò che Serianni racconta nella seconda parte del libro Il lessico («Parola per parola»), un libro pensato per tutti, con una sezione finale di «Strumenti»: grafici e numeri (nella prima metà del secolo scorso sono entrati nel vocabolario 564 anglicismi, nella seconda metà 2789 e già 759 nei primi 19 anni del XXI secolo), bibliografia, glossario.
Il glossario ci permette di giocare con le parole e con le loro trasformazioni a volte imprevedibili: sotto la voce stamberga vi si rivelerà il fenomeno della «degradazione semantica»(«il significato è l’anima delle parole»). Il romanesco burino (significato originario «villano») deriva dal latino «burra» (aratro), la cui doppia cade, come in tera (terra) e arivo (arrivo): Serianni ci informa che già per Belli le doppie si indebolivano e che in Pasolini e in Volponi troviamo burino nell’accezione attuale di «zotico». Il nome del vento triestino, Bora, ha un etimo illustre, il latino «Boreas» che a sua volta deriva dal greco e indica sia un vento di tramontana sia una divinità particolarmente venerata ad Atene e immaginata con due volti capaci di vedere in tutte le direzioni. Dalla stessa radice provengono parole come burrasca e buriana, e anche boria (superbia), che troviamo in Manzoni: «la boria ombrosa del conte zio». A proposito di «vedere», chi lo sapeva che è parente del sanscrito Veda, che significa «sapienza» e con cui si designa l’antica raccolta di testi sacri di quel popolo? E non pochi si sorprenderanno a sapere che la stessa radice la ritroviamo nel termine greco istorìa (storia), in quanto insieme di cose viste, in èidolon (idolo, immagine) e anche in idea (aspetto, forma ideale). Di storie, di idee e di immagini foniche e mentali sono piene le parole. E il libro di Serianni sa raccontarle in maniera affascinante.