La Stampa, 3 gennaio 2020
Frontiere aperte, +150% del Pil
«Perché le persone non dovrebbero poter vivere e lavorare ovunque esse vogliono?». Bryan Caplan è tra i più brillanti economisti della sua generazione. Insegna alla George Mason University, ha il gusto della polemica. Ha scritto libri per fornire «ragioni egoistiche per fare più figli», per sostenere che l’istruzione universitaria è, per i più, assai meno utile di quel che sembri, per mostrare come gli elettori siano «razionalmente irrazionali», disinformati perché consci dell’irrilevanza del proprio voto. Ora ha scelto un fumetto, realizzato assieme a Zach Weinersmith (creatore del webcomic SMBC), per la più difficile delle polemiche. La versione fumettistica del professor Caplan in 210 pagine (cui seguono abbondanti note e riferimenti) non si limita, nell’era di Trump e Salvini, a difendere la libertà di movimento della quale godiamo, ma cerca di spiegare perché niente e nessuno dovrebbe frapporsi tra una persona e l’ambizione di lavorare in un Paese diverso da quello in cui è venuta al mondo.
Inserito dall’Economist tra i libri del 2019, Open Borders (ed. First Second) ha per sottotitolo The science and ethics of immigration. Passi l’etica ma che ha da spartire la scienza con l’immigrazione?
La scienza in questione è la scienza economica. Michael Clemens ha calcolato che i guadagni dall’eliminare le barriere al libero movimento delle persone a livello mondiale «equivalgono a una frazione considerevole del Pil mondiale: uno o due ordini di grandezza dei benefici che si otterrebbero eliminando tutti i vincoli ancora esistenti ai flussi internazionali di beni e capitali». Se chiunque potesse accettare un lavoro in qualsiasi luogo, ci si potrebbe attendere un effetto compreso tra un aumento del 50% e una crescita del 150% del prodotto mondiale lordo. Nel caso più «pessimistico», un regime di frontiere aperte darebbe all’umanità «mezzo pianeta di ricchezza in più l’anno», così la mette il Caplan a fumetti, mentre in quello più ottimistico produrrebbe «un pianeta e mezzo di ricchezza in più l’anno».
Perché? Caplan lo spiega con un esempio. Immaginate che ci siano un milione di contadini in Antartide che passano il tempo a zappare la neve nella speranza di trarne qualcosa. Se qualche Paese più fertile acconsentisse ad accoglierli, essi potrebbero più facilmente procurarsi di che vivere. Ma non sarebbero gli unici beneficiari del loro spostamento. In Antartide, il loro contributo all’economia globale era nullo: il poco che riuscivano a far crescere finiva in autoconsumo. In una terra con caratteristiche diverse gli stessi agricoltori sarebbero molto più produttivi e potrebbero vendere tutto ciò che va oltre le loro necessità. Andrebbero così ad accrescere l’offerta di cibo, a beneficio dei consumatori di tutto il mondo. «Il segreto del consumo di massa», ammonisce Caplan, «è la produzione di massa».
Dal punto di vista economico, «la gran parte del mondo è come l’Antartide». Cattive regole e pessime istituzioni ostacolano la creazione di ricchezza come e quanto le più inospitali condizioni climatiche. Circa il 60% delle differenze salariali nel mondo dipendono «da dove sei, non da chi sei». La differenza nella remunerazione del lavoro in diverse giurisdizioni è molto più elevata di quanto non lo sia la differenza di prezzo tra beni. Rispetto al salario di un lavoratore non specializzato, vi sono divari, tra gli Stati Uniti e Paesi quali Haiti, la Nigeria e l’Egitto, che superano il mille per cento.
È proprio in queste differenze salariali che risiede quella «magia dell’immigrazione», per citare il recente Special Report dell’Economist, che potrebbe farne uno strepitoso volano di crescita. Se è vero, in linea di principio, che il libero movimento delle persone (dei lavoratori che producono un’automobile) equivale al libero movimento dei beni (delle automobili che essi hanno prodotto), il primo oggi è più ostacolato di quanto non sia il secondo. Ciò significa che maggiori sono i benefici che ci si può attendere da una financo parziale «liberalizzazione».
Con pazienza didattica, Caplan fronteggia le diverse obiezioni, tutte ben note nell’agone politico. L’immigrazione sarebbe economicamente feconda, sì, ma solo nel caso di lavoratori qualificati. Le convinzioni degli immigrati li rendono incompatibili con una società aperta, rischiando così di mettere a repentaglio la tenuta proprio di quei luoghi che non sono «Antartidi economiche». La libertà di movimento delle persone è astrattamente auspicabile, ma purtroppo è incompatibile con lo Stato sociale, che trasforma i nuovi venuti in un costo per gli stanziali. Gli ostacoli alla libertà di movimento hanno sempre riguardato in prima persona i poveri, i bisognosi. Adam Smith biasimava le leggi sui poveri che ostacolavano «la libera circolazione del lavoro degli artigiani e dei manifattori» per evitare che la responsabilità di una famiglia povera finisse in capo a una parrocchia diversa da quella di provenienza.
Caplan spiega come l’immigrato che ha un titolo di studio superiore paghi più che da sé il biglietto d’ingresso nella nuova giurisdizione, e che i costi fiscali siano rilevanti solo per chi emigra in età avanzata: di per sé, una rarità. I suoi sono argomenti razionali, lucidi, senza nessuna concessione al pietismo. La forma del fumetto non toglie nulla al loro rigore ma prova ad accorciare le distanze con un pubblico che, di argomenti pro immigrazione, per quanto solidi, oggi non ne vuole sapere.