Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2020
Chi controlla il petrolio in Libia
«Ricordo a tutte le parti che i giacimenti di petrolio e gas sono una fonte vitale di entrate che va a beneficio di tutti. Non devono essere trattati come obiettivi militari. Quando la produzione si interrompe a perderci sono tutti i libici». L’avvertimento lanciato di recente da Mustafa Sonallah, presidente della compagnia petrolifera di Stato della Libia (Noc), riflette davvero la realtà sul terreno.
In Libia, in questo momento, il petrolio serve a tutti. E per tutti gli scopi. Serve al generale Khalifa Haftar, il padre padrone della Cirenaica, per continuare la sua offensiva militare contro Tripoli lanciata in dicembre. Ma serve anche al suo nemico, Fayez al-Sarraj, premier di quell’ormai poco rappresentativo Governo di accordo nazionale (Gna) riconosciuto dall’Onu e insediatosi nel 2016 nella capitale della Tripolitania.
Da nemici sul campo di battaglia, i due leader vivono una situazione quasi paradossale. Per convenienza, devono essere partner energetici. Eppure da inizio anno Haftar controlla quasi tutti i giacimenti petroliferi del Paese e gran parte dei terminali sulla costa per esportarli. Gli idrocarburi rappresentano il 90% delle entrate governative. Perché, allora, rinunciare all’unica fonte di entrate disponibile?
Perché non ha scelta. Davanti alla proclamazione da parte del Parlamento di Tobruk di aver il diritto di esportare il petrolio estratto in Cirenaica, nel marzo del 2016 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha prorogato una risoluzione che riconosceva solo al Governo di Tripoli il diritto di gestire le esportazioni degli idrocarburi attraverso la Noc. La quale poi trasferisce le rendite alla Banca centrale, che a sua volta le distribuisce ai due Governi rivali. E forse è questa una delle poche risoluzioni del Consiglio di sicurezza che le maggiori potenze mondiali hanno rispettato. Ogni volta che il Governo della Cirenaica ha provato ad esportare greggio è stato bloccato dall’embargo internazionale. Emblematico fu il caso della petroliera battente bandiera nordcoreana Morning Glory, con a bordo greggio caricato illegalmente in Cirenaica. Fermata dalla marina militare americana nel Mediterraneo, la petroliera fu rispedita al porto di partenza.
Questo spiega perché Haftar, pur accusando il governo di Tripoli di mala gestione e discriminazione nelle vendite di greggio, preferisce per ora mandar giù questo boccone amaro e farsi da garante affinché il petrolio scorra negli oleodotti e sia venduto dal Governo rivale attraverso la Noc di Tripoli.
Le cose tuttavia potrebbero cambiare. La guerra in Libia si sta trasformando in un conflitto per procura. Il Cremlino sta dalla parte del generale Haftar, sostenuto militarmente da Emirati Arabi Uniti ed Egitto. Dalla parte del Gna ci sono il Qatar e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, più determinato che mai a non perdere altro terreno in Libia. Dopo aver denunciato la presenza di centinaia di mercenari russi tra le file delle forze di Haftar, a sua volta Erdogan ha inviato a Tripoli centinaia di miliziani turcomanni-siriani. La svolta però è arrivata ieri. Con il voto del Parlamento di Ankara, che ha approvato l’invio di soldati turchi e di mezzi navali in Libia a difesa del Gna.
Cosa accadrà ora è difficile da prevedere. Non è improbabile che se Turchia e Russia dovessero arrivare ad una sorta di accordo per porre fine alle violenze, darebbero il via libera di fatto alla spartizione del Paese in due grandi zone di influenza in cui ciascuno di loro potrebbe puntare ad entrare nella gestione delle risorse. In un Paese in cui vi sarebbero ancora grandi riserve da scoprire, i futuri contratti di esplorazione rappresentano una ghiotta opportunità.
In questa direzione va il controverso accordo firmato a fine novembre tra il Governo di Tripoli e quello di Ankara per delimitare le due reciproche zone esclusive economiche nel Mediterraneo in un’area potenzialmente ricca di petrolio e gas naturale. Un accordo che è stato duramente condannato da Cipro e Grecia (e non riconosciuto neanche dall’Italia).
Parlare di guerra per il controllo del greggio appare tuttavia eccessivo. Per una serie di ragioni. Al di là della risoluzione Onu che riconosce il Gna come esclusivo esportatore, estromettere le compagnie petrolifere straniere presenti in Libia in favore di quelle turche o russe sarebbe un’operazione difficile. I contratti di sfruttamento dei giacimenti hanno in gran parte una durata di 20-30 anni e sono protetti dalle leggi internazionali.
Dal momento che nessuno ha interesse a vedere in ginocchio l’industria petrolifera della Libia, le operazioni condotte dalle società straniere vanno avanti con regolarità. Almeno quella di Eni, primo operatore straniero del Paese già dall’inizio degli anni 50. In questi giorni la sua produzione sta viaggiando a pieno ritmo, intorno ai 290mila barili al giorno di petrolio equivalente (greggio e gas).
Come del resto la produzione petrolifera nazionale, arrivata in dicembre al massimo da sette anni, 1,25 milioni di barili al giorno.Un quantitativo che genera in un anno, ai prezzi attuali, quasi 30 miliardi di dollari di entrate.
Al di là delle storiche relazioni con Tripoli, vi è peraltro un altro aspetto che gioca a favore dell’Eni. Parte del gas estratto dalla major italiana è trasformato in elettricità destinata ai cittadini libici. Interromperla provocherebbe gravi disagi per la popolazione. In secondo luogo i contratti firmati tra la Noc e l’Eni relativi all’export di gas naturale sono come una sorta di solido matrimonio energetico. La cui fede nuziale è rappresentata dal Greenstream, il gasdotto che collega le coste della Libia all’Italia. Per ora Tripoli non ha altre soluzioni per esportarlo.
Certo, non si può escludere che chiunque prevalga in Libia possa dare il via ad un nuovo processo di nazionalizzazione. Eventualità remota che danneggerebbe la produzione. Quando il giovane Muhammar Gheddafi decise di farlo, appena salito al potere nel 1969, la produzione precipitò in pochi anni da 3 milioni di barili al giorno e non tornò mai sopra i due. Una nazionalizzazione potrebbe mutilare la produzione di un petrolio di qualità molto buona, con un costo di produzione piuttosto basso, e geograficamente vicino all’Europa. Uno scenario che terrorizza Tripoli. Ma che è visto con preoccupazione anche da diversi Paesi europei. Italia in prima linea.